August 29, 2013, 10:44 am
Simon Wren-Lewis replies to my post on the failure of macroeconomists, and tries to make most of the same points a bit more nicely. In particular, I’m glad to see him acknowledge that macroeconomics only looks like a progressive field if you start your story circa 1980, and ignore all the valid stuff that was tossed out by the RBC school, only to be painfully and partially reintroduced in New Keynesian models.
But even now, I think that Wren-Lewis is suffering from a bit of what I’ve come to think of as the Blanchard delusion (sorry, Olivier!): the delusion, widely prevalent on the eve of crisis, that we had in fact reached some kind of resolution of the bitter macroeconomics wars. Wren-Lewis declares that
In 2010, the standard business cycle model was the New Keynesian model, and the implications of that model for the efficacy of appropriately designed fiscal policy are clear.
I guess there’s some room for interpretation of the meaning of the word “standard”, but it became painfully clear in 2008-2009 that many economists — especially, but not only, at the University of Chicago — not only didn’t work in a New Keynesian framework, they were unaware that such a thing existed. As far as they knew, everything Keynesian had been refuted in the 1970s. And as for “the efficacy of appropriately designed fiscal policy” — well, here’s John Cochrane:
“It’s not part of what anybody has taught graduate students since the 1960s,” Cochrane said. “They are fairy tales that have been proved false. It is very comforting in times of stress to go back to the fairy tales we heard as children but it doesn’t make them less false.”
It would be interesting to know how many graduate departments were in fact teaching New Keynesian macro in 2008. My guess is that a fair number weren’t — that students literally had no exposure to the notion that monetary policy, let alone fiscal policy, could play an effective stabilizing role. The notion that we had reached some kind of intellectual detente was, as I said, a delusion: Keynesians had rebuilt their models to make them acceptable to the other side, but the idea that there was any real dialogue was a fantasy.
Now, it is true that New Keynesian models were dominant in policy-oriented research shops — at the various Feds, at the IMF, the Bank of England, etc.. But economists in such places aren’t as free to offer independent views as the academics, so the fact that NK was very much not established in the academic world mattered a lot.
Even given all that, it has been remarkable how unwilling many economists whose theoretical framework seems to be more or less Keynesian have been to go with the implications of that framework for fiscal and monetary policy; I think of people like John Taylor and Martin Feldstein. So there are deeper problems. But Wren-Lewis is, I think, too sanguine about the starting point.
Macroeconomisti in guerra
Simon Wren-Lewis replica al mio post sul fallimento dei macroeconomisti [1], e cerca di avanzare in gran parte gli stessi argomenti con un po’ più di tatto. In particolare, sono contento di constatare che riconosca che la macroeconomia assomigli ad un campo progressivo soltanto se si parte con il racconto attorno al 1980, e si ignorano tutte le cose valide che furono rigettate dalla scuola del Ciclo Economico Reale [2], solo per essere faticosamente e parzialmente reintrodotte nei modelli neokeynesiani.
Ma persino a questo punto, penso che Wren-Lewis stia un po’ soffrendo di quella che sono arrivato a pensare come “l’illusione di Blanchard” (spiacente, Olivier [3]!): l’illusione, ampiamente prevalente nel periodo della crisi, di avere raggiunto un qualche genere di armistizio nelle acerrime guerre macroeconomiche. Wren-Lewis dichiara che:
“Nel 2010 il modello standard di ciclo economico reale era il modello neo keynesiano, e sono chiare le implicazioni di quel modello a favore di una politica della finanza pubblica progettata in modo appropriato.”
Suppongo che ci sia qualche margine per una interpretazione del significato della parola “standard”, ma negli anni 2008-2009 divenne dolorosamente chiaro che molti economisti – specialmente ma non solo alla Università di Chicago – non soltanto non lavoravano in uno schema neo keynesiano, ma non erano consapevoli che esistesse qualcosa del genere. Per quanto ne sapevano, tutto del keynesismo era stato confutato nel corso degli anni ’70. E per quanto riguarda “l’efficacia di una politica della finanza pubblica progettata in modo appropriato” – bene, ecco qua John Cochrane [4]:
“Non fa parte di quello che ognuno ha insegnato agli studenti universitari a partire dagli anni ‘60” disse Cochrane. “Si tratta di favole che si sono rivelate false. E’ molto piacevole in tempi di tensione tornare alle favole che sentivamo raccontare da bambini, ma questo non le rende meno false.”
Sarebbe interessante sapere quanti dipartimenti universitari stavano effettivamente insegnando economia neo keynesiana nel 2008. La mia impressione è che non fossero un gran numero – che gli studenti non ebbero alcun contatto con il concetto per il quale la politica monetaria, lasciamo perdere quella della spesa pubblica, poteva giocare un effettivo ruolo di stabilizzazione. Il concetto secondo il quale avevamo raggiunto una qualche schiarita fu, come ho detto, una illusione: i keynesiani ricostruirono i loro modelli per renderli accettabili all’altro schieramento, ma l’idea che ci fosse un vero dialogo fu una fantasia.
Ora, è vero che i modelli neokeynesiani furono dominanti nei laboratori di ricerca orientati alla politica – presso le varie Fed, FMI, Banca di Inghilterra etc. Ma gli economisti in tali luoghi non sono altrettanto liberi di presentare punti di vista indipendenti come gli accademici, dunque la circostanza per la quale il neokeynesismo non avesse messo grandi radici nel mondo accademico pesò molto.
Anche considerato tutto questo, è stato considerevole come molti economisti riluttanti il cui schema teorico sembra più o meno keynesiano, abbiano proceduto di conserva con quello schema per la politica monetaria e della finanza pubblica; penso a persone come John Taylor e Martin Feldstein. Dunque ci sono problemi più profondi. Ma Wren-Lewis è, io penso, troppo ottimista sul punto di partenza.
[1] “Il vero guaio dell’economia” del 27 agosto.
[2] Vedi la nota in calce al post suddetto.
[3] Olivier Blanchard è al momento il principale economista del FMI.
[4] Ovvero uno dei principali esponenti della Teoria dei cicli economici reali.
agosto 29, 2013
August 29, 2013, 10:15 am
Still working on the crisis du jour, the markets’ sudden turn against emerging economies. The big question here is how serious this really is — is it the kind of thing that costs a few finance ministers their jobs and maybe causes mild recessions when central banks hike rates, or is it a potential economic catastrophe?
It’s important to understand that this is not at all the same question as asking whether the economies in question have deep structural flaws, lousy infrastructure, inferior politicians etc.. You can have all that and still skirt serious recession; you can also have a wonderfully innovative and efficient economy and suffer business cycle disaster (see America, 1929).
My take is still that the risks of real disaster are low. Here’s why. This site conveniently has a chart showing Indonesia’s external debt as a share of gross national income (not exactly the same as GDP, but close enough):
You see fairly elevated levels in the mid-1990s, then the ratio soars in the crisis. That’s the infamous devaluation/balance sheet effect: Indonesia’s private sector had lots of debt in dollars, so when the markets turned and the rupiah plunged, that debt ballooned relative to income and assets, causing a severe real-side crisis.
But as you can also see, Indonesia has a much lower debt ratio now — about half what it was in the mid-90s.
What about India? I’ve already noted that its external debt level is relatively low — lower than Indonesia now, let alone Indonesia in the 90s:
Now, it’s possible that I and everyone else who tried to understand what happened in the 90s has the wrong model. But given what we know, I’m relatively though not totally calm.
Vulnerabilità asiatica, allora ed oggi
Sto ancora lavorando sulla crisi del giorno, l’improvvisa svolta dei mercati a danno delle economie emergenti. In questo caso la grande domanda è quanto sia davvero serio tutto questo – è il genere di cosa che costa il posto di lavoro a pochi ministri delle finanze e forse provoca leggere recessioni, oppure è una potenziale catastrofe economica?
E’ importante capire che questa non è affatto la stessa domanda del chiedere se le economie in questione abbiano difetti strutturali profondi, infrastrutture scadenti, politici di qualità inferiore etc. Si può avere tutto questo e purtuttavia scansare serie recessioni; si può anche avere una economia meravigliosamente innovativa ed efficiente e patire i disastri del ciclo economico (si veda l’America del 1929).
La mia interpretazione è ancora che i rischi di un effettivo disastro siano bassi. Ecco perché. Questo sito [1] ha opportunamente una tabella che mostra il debito esterno dell’Indonesia come percentuale del reddito lordo nazionale (non esattamente la stessa cosa del Prodotto Interno Lordo, ma abbastanza vicina):
Si vedono livelli abbastanza elevati nella metà degli anni ’90, poi il rapporto si impenna nella crisi. Quello è l’effetto famigerato svalutazione/equilibri contabili: il settore privato dell’Indonesia aveva grandi quantità di debiti in dollari, dunque quando i mercati si sono spostati e la rupia è precipitata, il debito è cresciuto a vista d’occhio in rapporto al reddito ed agli assets, provocando una grave crisi dal lato dell’economia reale.
Ma come anche si può vedere, l’Indonesia ha adesso una percentuale di debito molto più bassa – circa la metà di quella che aveva nel mezzo degli anni ’90.
Cosa dire dell’India? Avevo già notato che il suo livello di debito esterno è relativamente basso – più basso dell’Indonesia attuale, per non dire dell’Indonesia degli anni ’90:
Ora, è possibile che il sottoscritto e chiunque altro che cercò di capire cosa accadde negli anni ’90 abbia il modello sbagliato. Ma, sulla base di quello che conosciamo, sono relativamente sebbene non totalmente tranquillo.
agosto 28, 2013
August 28, 2013, 2:00 pm
So, I’m feeling young again — well, middle-aged, anyway. The rupiah is plunging again!
I was one of those economists for whom the Asian crisis of 1997-1998 came as a disturbing revelation, a demonstration that events all too reminiscent of the Great Depression could still happen in the modern world. Between the acute crises in Southeast Asia and the long stagnation in Japan, it was — or so I thought — all too clear that we did not, in fact, have this thing under control. Unfortunately, not enough people grasped that lesson, and a decade later we had a global crisis that made the Asian crisis look trivial by comparison.
But anyway, the moving finger of crisis seems for the moment to be pointing back at some of the old crowd. And I’m catching up on what’s been going on in that part of the world.
The first thing you want to say is that all the crisis economies — even Indonesia, which had by far the worst time in the beginning — eventually bounced back strongly:
Total Economy Database
This is in stark contrast to the experience of the countries that seem like the closest parallel to SE Asia this time around, the troubled euro area debtors. Here’s a comparison of Indonesia after 1997 and Greece after 2007, with the later years for Greece being the current IMF projections; the number of years after the pre-crisis peak is on the horizontal axis:
Total Economy Database, IMF
By this point in the aftermath of the Asian crisis, even Indonesia was well on the road to recovery; Greece, Spain etc. are still sinking.
What’s worth remembering is that everything people say about why Greece can’t bounce back — structural problems, corruption, weak leadership, yada yada was also said about Indonesia. So why could Indonesia come back while Greece can’t?
Well, two obvious reasons: Indonesia had a currency that it could devalue, and did, massively. This caused a lot of short-term financial stress, but paved the way for export-led growth. And the IMF, after initially pushing austerity policies in Asia, backed off and reversed course; this time around the Troika has been relentless, learning nothing from experience.
Much more on this topic in future posts.
La crisi asiatica a confronto con la crisi europea
Dunque, è come se fossi tornato giovane – ebbene, almeno di mezza età. La rupia sta scendendo ancora!
Io fui uno di quegli economisti per i quali la crisi asiatica del 1997-1998 arrivò come una rivelazione allarmante, una dimostrazione che eventi che facevano anche troppo venire alla mente la Grande Depressione potevano ancora riaccadere nel mondo odierno. Tra le gravi crisi del Sud Est asiatico e la lunga stagnazione del Giappone, era – o così io pensavo – anche troppo chiaro che non avevamo, di fatto, sotto controllo questa evenienza. Sfortunatamente, non molte persone afferrarono quella lezione, ed un decennio dopo avemmo una crisi globale rispetto alla quale la crisi asiatica pare banale.
Ma in ogni caso, per il momento il fattore scatenante la crisi sembra tornare ad indicare qualcosa della vecchia casistica. E sto aggiornandomi su cosa sta accadendo in quella parte del mondo.
La prima cosa che si deve dire è che tutte le economie in crisi – persino l’Indonesia, che ebbe di gran lunga la peggiore esperienza agli inizi – alla fine si riprendono con forza:
Database totale dell’economia
Questo è in estremo contrasto con l’esperienza dei paesi che sembrano in questa occasione il parallelo più prossimo all’Asia sudorientale, i debitori in difficoltà dell’area euro. Ecco un confronto dell’Indonesia nel 1997 e della Grecia dopo il 2007, con gli ultimi anni per la Grecia che si basano sulle attuale previsioni del FMI; il numero degli anni dopo il picco precedente alla crisi è sull’asse orizzontale:
Database totale dell’economia, FMI
In questo senso nel periodo successivo della crisi asiatica, persino l’Indonesia era messa in modo migliore sulla strada della ripresa; la Grecia, la Spagna etc. stanno ancora affondando.
Quello che merita di essere ricordato è che tutto quello che la gente dice sulle ragioni per le quali la Grecia non può riprendersi – problemi strutturali, corruzione, debolezza dei gruppi dirigenti, etc. etc. -veniva anche detto a proposito dell’Indonesia. Perché dunque l’Indonesia torna in auge mentre la Grecia non può farlo?
Ebbene, ci sono due ovvie ragioni: l’Indonesia aveva una valuta che poteva svalutare, e lo fece massicciamente. Questo a breve termine provocò un grande disordine finanziario, ma preparò la strada per un crescita guidata dalle esportazioni. E il FMI, dopo aver inizialmente spinto per politiche di austerità in Asia, si ricredette e invertì l’indirizzo; in questa occasione la troika [1] è stata implacabile, non imparando niente dall’esperienza.
Dirò di più su questo tema in posts futuri.
[1] Ovvero, l’organismo di supervisione che decide e tratta con il Governo greco, composto dal FMI, dalla BCE e dalla Commissione Europea.
agosto 27, 2013
August 27, 2013, 11:39 am
I’m a bit behind the curve in commenting on the Rosenberg-Curtain piece on economics as a non-science. What do I think of their thesis?
Well, I’m sorry to say that they’ve gotten it almost all wrong. Only “almost”: they’re entirely right that economics isn’t behaving like a science, and economists – macroeconomists, anyway – definitely aren’t behaving like scientists. But they misunderstand the nature of the failure, and for that matter the nature of such successes as we’re having.
Let’s start with the giveaway passage:
An effective chair of the central bank will be one who understands that economics is not yet a science and may never be. At this point it is a craft, to be executed with wisdom, not algorithms, in the design and management of institutions. What made Ben S. Bernanke, the current chairman, successful was his willingness to use methods — like “quantitative easing,” buying bonds to lower long-term interest rates — that demanded a feeling for the economy, one that mere rational-expectations macroeconomics would have denied him.
Whoa! They apparently imagine that QE was an intuitive reaction by Bernanke, one that academic macroeconomics would never have suggested. Nothing could be further from the truth. By the time 2008 came along, the issue of how to conduct monetary policy at the zero lower bound had been extensively discussed, notably in Krugman 1998 (pdf), Eggertsson and Woodford (2003), and, yes, Bernanke-Reinhart-Sack 2004 (pdf). Indeed, the Fed’s QE policies initially followed the latter paper closely; its more recent shift to a greater emphasis on forward guidance is a move in the direction of the Krugman-Eggertsson-Woodford approach.
In other words, far from acting as a free-spirited improviser, Bernanke has been largely implementing recipes developed in the academic literature years before.
So Rosenberg and Curtain completely misunderstand what’s been going on at the Fed. They also misunderstand the nature of economists’ predictive failures. It’s true that few economists predicted the onset of crisis. Once crisis struck, however, basic macroeconomic models did a very good job in key respects — in particular, they did much better than people who relied on their intuitive feelings. The intuitionists — remember, Alan Greenspan was supposed to be famously able to sense the economy’s pulse — insisted that budget deficits would send interest rates soaring, that the expansion of the Fed’s balance sheet would be inflationary, that fiscal austerity would strengthen economies through “confidence”. Meanwhile, wonks who relied on suitably interpreted IS-LM confidently declared that all this intuition, based on experiences in a different environment, would prove wrong — and they were right. From my point of view, these past 5 years have been a triumph for and vindication of economic modeling.
Oh, and it would be a real tragedy if the takeaway from recent events becomes that you should listen to impressive-looking guys with good tailors who stroke their chins and sound wise, and ignore the nerds; the nerds have been mostly right, while the Very Serious People have been wrong every step of the way.
Yet obviously something is deeply wrong with economics. While economists using textbook macro models got things mostly and impressively right, many famous economists refused to use those models — in fact, they made it clear in discussion that they didn’t understand points that had been worked out generations ago. Moreover, it’s hard to find any economists who changed their minds when their predictions, say of sharply higher inflation, turned out wrong.
Nor is this a new thing. My take on the history of macro is that the notion of equilibrium business cycles had, by the standards of any normal science, definitively failed by any normal scientific standard by 1990 at the latest. The original idea that money had real effects because people were surprised by monetary shocks fell apart in the face of evidence of business cycle persistence; the real business cycle view that nominal shocks didn’t actually matter after all was refuted by decisive evidence (pdf) that, in fact, it did. Yet there was no backing off on this approach. On the contrary, it actually increased its hold on the profession.
So, let’s grant that economics as practiced doesn’t look like a science. But that’s not because the subject is inherently unsuited to the scientific method. Sure, it’s highly imperfect — it’s a complex area, and our understanding is in its early stages. And sure, the economy itself changes over time, so that what was true 75 years ago may not be true today — although what really impresses you if you study macro, in particular, is the continuity, so that Bagehot and Wicksell and Irving Fisher and, of course, Keynes remain quite relevant today.
No, the problem lies not in the inherent unsuitability of economics for scientific thinking as in the sociology of the economics profession — a profession that somehow, at least in macro, has ceased rewarding research that produces successful predictions and rewards research that fits preconceptions and uses hard math instead.
Why has the sociology of economics gone so wrong? I’m not completely sure — and I’ll reserve my random thoughts for another occasion.
Il vero guaio dell’economia
Non sono a mio agio nel commentare il pezzo di Rosenberg–Curtain sull’economia come non-scienza. Cosa pensare della loro tesi?
Ebbene, mi dispiace dirlo ma sbagliano quasi su tutto. Dico “quasi”, perché hanno interamente ragione sul fatto che l’economia non si stia comportando come una scienza e che gli economisti – o in ogni caso i macroeconomisti – certamente non si stiano comportando come scienziati. Ma fraintendono la natura di quel fallimento, e per quel motivo la natura del genere di successi che stiamo ottenendo.
Cominciamo con il passaggio rivelatore:
“Un Presidente efficace della banca centrale sarà un individuo che capisce che l’economia non è ancora una scienza e non lo sarà mai. Al punto a cui siamo, essa è un mestiere, da eseguire con buon senso, non con algoritmi, nella progettazione e nella gestione delle istituzioni. Ciò che Ben Bernanke, il Presidente attuale, ha fatto con successo è dipeso dalla sua volontà di usare metodi – come la “Facilitazione Quantitativa” [1], ovvero l’acquisto di bonds a più bassi tassi di interesse a lungo termine – che chiedevano una sensibilità per l’economia, qualcosa che la macroeconomia delle aspettative razionali non gli avrebbe permesso.”
Perbacco! Pare che si immaginino che la Facilitazione Quantitativa fosse da parte di Bernanke una reazione istintiva, qualcosa che la macroeconomia accademica mai gli avrebbe suggerito. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Quando arrivò il 2008, il tema di come condurre la politica monetaria a fronte del limite inferiore di zero [2] era stato abbondantemente dibattuto, in particolare in Krugman 1998 (disponibile in pdf), in Eggertsson e Woodford (2003) ed in Bernanke-Reinhart-Sack (2004, disponibile in pdf). In effetti, le politiche della Facilitazione Quantitativa della Fed inizialmente seguirono l’ultimo studio in modo ravvicinato; gli spostamenti più recenti verso una maggiore enfasi su una guida ardita è una mossa nella direzione dell’approccio Krugman-Eggertsson-Woodford.
In altre parole, lungi dall’agire come un improvvisatore dallo spirito libero, Bernanke è venuto largamente applicando ricette sviluppate nella letteratura accademica di anni prima.
Così Rosenberg e Curtain fraintendono completamente cosa è accaduto alla Fed. Fraintendono anche la natura delle previsioni sbagliate degli economisti. E’ vero che pochi economisti avevano previsto l’avvio della crisi. Una volta che essa scoppiò, tuttavia, i modelli macroeconomici fondamentali fecero un ottimo lavoro sugli aspetti principali – in particolare, fecero molto meglio delle persone che si basavano sulle loro sensazioni istintive. Gli intuizionisti – si ricordi, Alan Greenspan passava per essere notoriamente capace di sentire il polso dell’economia – insistevano che i deficits di bilancio avrebbero spinto i tassi di interesse alle stelle, che l’espansione dei conti della Fed avrebbe avuto effetti inflazionistici, che l’austerità della finanza pubblica avrebbe rafforzato le economie attraverso la “fiducia”. Nel frattempo, studiosi che si basavano sul modello IS-LM appropriatamente interpretato, dichiaravano convintamente che tutte queste intuizioni, basate su esperienze in diversi contesti, si sarebbero mostrate sbagliate – ed avevano ragione. Dal mio punto di vista, questi cinque anni sono stati un trionfo e un risarcimento della modellistica economica.
Inoltre, sarebbe davvero una tragedia se il risultato degli eventi recenti diventasse che si debba dare ascolto a personaggi tutta apparenza, che si servono da sarti di fama e che si grattano il mento pensosi ed appaiono saggi, ed ignorare le persone che studiano; sono queste ultime che hanno in gran parte avuto ragione, mentre le Persone Molto Serie hanno avuto torto ad ogni passaggio.
Tuttavia, è evidente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’economia. Mentre gli economisti che utilizzano i modelli macro dei libri di testo hanno di solito avuto ragione in modo impressionante, molti famosi economisti si sono rifiutati di utilizzare quei modelli – di fatto, nel corso del dibattito hanno voluto chiarire che non comprendono gli aspetti ai quali sono state trovate soluzioni generazioni orsono. Inoltre, è difficile trovare economisti che abbiano modificato il loro modo di ragionare allorché le loro previsioni, ad esempio di una inflazione bruscamente in crescita, si sono rivelate sbagliate.
E non è una novità. La mia interpretazione sulla storia della macro è che il concetto di cicli economici in equilibrio è venuto meno, secondo i metodi di una qualsiasi normale scienza, al massimo a partire dagli anni ’90 a qualsiasi normale criterio scientifico. L’idea originaria secondo la quale la moneta aveva effetti reali perché le persone erano sorprese dagli shocks monetari andò in frantumi a fronte della prova della persistenza del ciclo economico; il punto di vista della teoria del ciclo economico secondo il quale gli shocks in termini monetari nominali non contano venne, dopo tutto, confutato dai fatti in modo decisivo [3]. Tuttavia non ci fu alcun arretramento da un simile approccio. Al contrario, esso aumentò la sua presa sulla disciplina.
Dunque, diamo per accertato che l’economia come viene praticata non assomiglia ad una scienza. Ma questo non perché il suo oggetto sia intrinsecamente inadatto al metodo scientifico. Certamente, esso è molto imperfetto – si tratta di una settore complesso e la nostra comprensione di esso è alle fasi iniziali. Ed è anche chiaro che l’economia stessa cambia col tempo, in modo tale che quello che era vero 75 anni fa può non esser vero oggi – sebbene quello che realmente vi impressiona se, in particolare, studiate la macroeconomia è la continuità, cosicché Bagehot Wicksell ed Irving Fisher e, naturalmente, Keynes restano ancora oggi del tutto significativi.
No, il problema non consiste in una economia intrinsecamente inadatta al pensiero scientifico e neppure in una sociologia della disciplina economica – una disciplina che in qualche modo, almeno nella macroeconomia, ha smesso di premiare ricerche che producono previsioni di successo e piuttosto premia ricerche che si adattano a pregiudizi e usano una difficile matematica.
Perché la sociologia dell’economia è stata così sbagliata? Non ne sono completamente sicuro – e riservo ad un’altra occasione i miei pensieri in libertà.
[1] Vedi note sulla traduzione.
[2] Vedi le note sulla traduzione.
[3] Nel link, disponibile in pdf, uno studio dei due economisti, i coniugi Romer, del 1998, nel quale appunto – tornando alle tesi di Friedman e Schwartz (“La storia monetaria degli Stati Uniti” – si confutava con i dati più recenti la pretesa dei teorici del ciclo economico reale della non influenza degli shocks monetari nominali.
La Teoria del ciclo economico reale (RBT Theory) allude alle posizioni della corrente di economisti denominata anche “dell’acqua dolce” (“freshwater economics”, vedi note sulla traduzione) o anche degli economisti di Chicago, secondo i quali le fluttuazioni dei cicli economici in larga misura dipendono da shocks reali e non da shocks monetari dei soli valori nominali. Si tratta di una prosecuzione nell’epoca del dopoguerra delle tesi degli economisti della scuola ‘austriaca’, per le quali le crisi recessive e depressive sarebbero niente altro che ‘aggiustamenti salutari’ da parte di mercati di fenomeni reali profondi dell’economia (ad esempio: fenomeni di modificazioni nelle tecnologie, uscita di scena di soggetti economici non più competitivi etc.). Le crisi non sarebbero dunque prova della non onnipotenza ed onniscienza dei mercati, e pensare di intervenire su di esse con gli strumenti monetari o della spesa pubblica – come aveva sostenuto alcuni decenni prima il keynesismo – sarebbe più che illusorio, negativo. Alcuni nomi di esponenti di tale Teoria ancora in vita sono: Richard Posner, Robert E. Lucas, Eugene Fama.
Se si volesse trasporre queste opinioni in una sorta di semplice geografia politica del pensiero economico statunitense, è evidente che le tesi della teoria del ciclo economico reale (o in equilibrio) rappresentano la destra, ed in effetti esse sono ancora oggi sostanzialmente omogenee con le posizioni politiche della destra repubblicana. Il keynesismo, ovviamente, indica soluzioni che invece appartengono alla tradizione democratica. Krugman ha sempre insistito – anche con alcuni interventi di questo ultimo mese – che le posizioni di Friedman non dovrebbero in nessun modo essere confuse con quelle della destra del pensiero economico, giacché appunto è opposta la considerazione sulla influenza dei processi derivanti da mutamenti monetari. Ancorché lo spazio politico per posizioni alla Friedman sembra ormai inesistente, nella destra americana odierna.
E questi sono i due coniugi Romer, che spesso sono oggetto di citazioni:
agosto 26, 2013
August 26, 2013, 9:12 am
Joe Weisenthal is right: Wall Street is paying too much attention to the “taper”, the prospect of a slowing of Fed asset purchases, and not enough attention to the looming game of debt-ceiling chicken.
My guess is that the market reaction to the taper mainly reflects belief that it signals a general tightening bias by the Fed. If it becomes clear that it doesn’t, things should calm down. But then there’s the political crisis.
If you haven’t been reading the political blogs much — say, Greg Sargent — you may not have a sense of just how dire the political environment is. But here’s the situation. You have a Republican base that truly believes that guaranteed health insurance is the work of the devil. Meanwhile, there’s a Republican majority in the House that owes its position not to broad popular support — Democrats actually got more votes in 2012 — but to a district map that concentrates Democrats in a minority of districts, which in turn means that most Rs are more afraid of Tea Party challengers than outraged independents.
And the debt ceiling looms, with many ideologues assuring the base that Obama can be bullied into gutting his main achievement, which he won’t.
Everyone seems to assume that this will be worked out somehow, but nobody has even a halfway plausible story about how this will be done. Default looks like a real risk.
There is, however, still an option:
La stretta contro la follia
Joe Weisenthal ha ragione: Wall Street sta mettendo troppa attenzione alla “stretta”, la prospettiva di un rallentamento degli acquisti di asset da parte della Fed, e non abbastanza attenzione all’incombente ‘gioco del pollo’ [1] sul tetto del debito [2].
La mia impressione è che la reazione del mercato alla stretta principalmente rifletta il convincimento che essa segnali una generale tendenza alla restrizione da parte della Fed. Se diventa chiaro che non è così, le cose dovrebbero un po’ calmarsi. Ma poi viene la crisi politica.
Se non state leggendo un granché i blogs politici – ad esempio, Greg Sargent – potete non avere un’idea di quanto sia proprio terribile il clima politico. Ma ecco la situazione. C’è una base repubblicana che crede per davvero che la assicurazione garantita sulla salute sia opera del diavolo. Nel frattempo, c’è una maggioranza repubblicana alla Camera che non deve la sua posizione ad un generale sostegno popolare – nel 2012 i democratici ebbero più voti – ma ad una geografia di collegi elettorali che concentra i Democratici in una minoranza di collegi, il che a sua volta significa che gran parte dei Repubblicani hanno più timore degli sfidanti del Tea Party che di indipendenti arrabbiati.
E il tetto del debito incombe, con molti ideologi che assicurano la base che Obama può essere costretto con la prepotenza a mandare all’aria la sua principale realizzazione, cosa che egli non vorrà fare.
Ognuno sembra ipotizzare che tutto questo in qualche modo si risolverà, ma nessuno ha nemmeno mezza idea di come sarà possibile. Il default sembra un rischio reale.
C’è tuttavia ancora una opzione [3]:
[1] Il gioco probabilmente nacque quasi un secolo fa: in una strada deserta di campagna, alcuni bambini giocavano ad attraversare la strada per ultimi, dinanzi a rare macchine che arrivavano a tutta velocità. Oppure, negli anni ’50 e ’60 della “gioventù bruciata”: guidare a tutta velocità due macchine, una verso l’altra, e decidere di schivare per ultimi, oppure di non schivare affatto. Chiamato del pollo anziché del coniglio, perché per gli anglosassoni è il pollo e non il coniglio simbolo di viltà. O magari anche perchè pure i polli attraversavano le prime strade polverose, semplicemente in quanto polli …
[2] Per “debt ceiling” (“tetto del debito”) vedi le note sulla traduzione.
[3] L’opzione è la figura successiva, di un personaggio della serie di Star Trek, che figura su una gran moneta da mille miliardi di dollari. La stessa caricatura era stata usata in un post dei mesi passati, a fronte di un’altra stretta provocata da un ricatto dei Repubblicani, con rischio di default. Allora Krugman sostenne, non semplicemente scherzando, che la Amministrazione Obama, sfruttando una teorica possibilità di conio di monete eccezionali, avrebbe potuto pur sempre trovare i soldi necessari per evitare un blocco delle funzioni di Governo (il che implicherebbe di necessità un default, perché costringerebbe tra l’altro al non pagamento degli interessi sul debito pubblico) coniando, appunto, una unica moneta da migliaia di miliardi di dollari. L’idea venne presa in una certa misura sul serio in un dibattito successivo, nel senso che ad alcuni sembrò, in condizioni estreme, da non escludere.
agosto 25, 2013
August 25, 2013, 8:54 am
Bob Hall’s paper for Jackson Hole (pdf) is, characteristically for Hall, a mix of very sensible stuff and strange-looking stuff that just might involve a deep insight. (Hall used to be famous at MIT for talks along the lines of “Not many people understand this, but the IS curve actually slopes up and the LM curve slopes down” — and then, not most of the time but often enough, his apparent craziness would turn out to be a big insight that changed the way you thought about a major issue.)
So, the first half of the paper is a discussion of the problem of aggregate demand in terms of the Wicksellian natural interest rate — the rate consistent with full employment — and the impossibility of reaching that rate right now because of the zero lower bound. It’s the same framework I’ve been using all along.
The second half, however, is an attempt to explain why excess supply of labor hasn’t led to deflation, in which Hall tries to marry IS-LM macro to a search model of equilibrium unemployment. The idea is that something — Hall points to higher risk premia, although those have come down a lot since 2009 — is makings firms unwilling to invest in new hires, in effect degrading the process that matches workers to jobs and hence raises equilibrium unemployment. At least I think that’s what is going on.
Brad DeLong also links to Roger Farmer, presumably because he thinks Farmer, in his attack on the concept of the natural rate of unemployment, is making a fundamentally similar argument. I guess I think so too, although — well, read it for yourself.
So, do I buy this? No, or at least not yet, for several reasons.
First, they may be explaining a puzzle that isn’t there. Hall talks as if it were clear that there is no relationship between economic slack and inflation and/or wage changes. But suppose we look at the period of the Great Moderation — that is, the period after the great disinflation of the early 80s, after which public expectations of inflation more or less stabilized — and look at an old-fashioned Phillips type relationship between unemployment and the change in wages over the following year. (I use nonsupervisory employees because the all-employees series doesn’t start until recently). It looks like this:
That looks about as good as, or even better than, the Phillips curves people were looking at back in the early 60s. Are we sure we have a problem here?
Second, Hall lays a lot of stress on risk premia as sources of shocks, in effect, to aggregate supply — rising risk premia deterring hiring, so that workers have to spend more time searching. But risk premia, at least as measured by spreads on risky corporate bonds, are way down:
Where’s my full employment? OK, you could argue that this is indicating normalization of markets only for large corporations, and that small business still faces unusual credit constraints. But Hall is still laying a lot of stress on a factor that isn’t obvious in the data.
Finally, sheer nominal stickiness / money illusion doesn’t seem to play any role in the Hall/Farmer formulation. Yet we now have overwhelming evidence of the presence of such stickiness, in the form of a large (and increased) share of wages that exhibit precisely zero change from year to year:
San Francisco Fed Percentage of workers with zero wage change
So, I’m not sold. But interesting stuff.
Modelli innaturali del mercato del lavoro (per esperti)
Il saggio di Bob Hall per Jackson Hole (disponibile in pdf) è, come è caratteristico di Hall, un misto di cose molto ragionevoli e di idee dall’aspetto singolare che potrebbero avere a che fare con intuizioni profonde (Hall era famoso al MIT per discorsi del tipo “Non molte persone lo capiscono, ma la curva IS effettivamente inclina verso l’alto e quella LM inclina verso il basso” [1]– e poi, non nella maggior parte dei casi ma abbastanza spesso, si è scoperto che la sua apparente follia era una grande intuizione che ha cambiato il modo nel quale si pensa a cose importanti).
Dunque, la prima parte del saggio è una discussione del problema della domanda aggregata in termini di wickselliano tasso di interesse – ovvero il tasso coerente con una situazione di piena occupazione – e della impossibilità di raggiungere quel tasso immediatamente a causa del limite inferiore dello zero. Si tratta dello stesso schema che io utilizzo da sempre.
La seconda parte, tuttavia, è un tentativo di spiegare perché l’eccesso di offerta di lavoro non ha condotto alla deflazione, e in essa Hall cerca di sposare la macro del modello IS-LM con un modello di ricerca della disoccupazione in equilibrio. L’idea è che qualcosa – Hall indica i più alti premi del rischio [2], sebbene quelli siano molto scesi dal 2009 – stia rendendo le imprese non desiderose di fare nuove assunzioni, in sostanza degradando il processo che equipara i lavoratori ai posti di lavoro e di conseguenza elevando l’equilibrio di disoccupazione. Almeno io penso che è quello che stia succedendo.
Brad DeLong lo mette in connessione con Roger Farmer, presumibilmente perché egli pensa che Farmer, nel suo attacco al concetto di tasso naturale di disoccupazione, stia avanzando un argomento fondamentalmente simile. Penso anch’io nello stesso modo, sebbene – ebbene, leggetelo per conto vostro.
Dunque, mi lascia convinto? No, o almeno non ancora, per un certo numero di ragioni.
La prima, può darsi che essi spieghino un mistero che in questo caso non c’è. Hall parla come se non ci fosse alcuna relazione tra una economia fiacca e l’inflazione e/o i mutamenti salariali. Ma supponiamo di osservare il periodo della cosiddetta Grande Moderazione – cioè, il periodo successivo alla grande disinflazione dei primi anni ’80, dopo il quale le aspettative di inflazione più o meno si stabilizzarono – e si guardi a quel tipo di tradizionale relazione alla Phillips tra disoccupazione e cambiamenti salariali negli anni successivi (utilizzo i dati sugli impiegati non addetti alla sorveglianza, perché le serie sugli impiegati complessivi non sono partite se non di recente). Appare in questo modo:
Sembra altrettanto buono, o persino migliore di quello che i cultori delle curve di Phillips osservavano agli inizi dei passati anni ’60. Siamo sicuri che ci sia qua un problema?
Il secondo, Hall si basa molto sullo stress dei premi di rischio come fonti di shocks per l’offerta aggregata – premi di rischio crescenti dissuadono dall’assumere, cosicché i lavoratori debbono impiegare più tempo nella ricerca. Ma i premi di rischio, almeno come misurati dai differenziali sui bonds rischiosi delle grandi imprese, sono assai in basso:
Dov’è la piena occupazione di cui si parla? E’ vero, si potrebbe sostenere che questo stia indicando una normalizzazione dei mercati soltanto per le imprese grandi, e che le piccole imprese stiano ancora fronteggiando limitazioni inusuali al credito. Ma Hall continua ad attribuire molta tensione ad un fattore che non è evidente nelle statistiche.
Infine, la pura e semplice rigidità nominale (l’illusione monetaria) non sembra che giochi alcun ruolo nelle formulazioni di Hall/Farmer. Tuttavia abbiamo adesso una completa prova della presenza di tale rigidità, nella forma di una ampia (ed accresciuta) quota di salari che mostrano da un anno all’altro precisamente un mutamento nullo [3]:
Percentuale di lavoratori con mutamento salariale nullo
Dunque, non sono convinto. Ma si tratta di cose interessanti.
[1] La frase è un esempio di una affermazione strana. Infatti, si tenga a mente la rappresentazione del modello IS-LM:
Nel diagramma, la linea verticale rappresenta il tasso di interesse (l’economia monetaria) e quella orizzontale il reddito (l’economia reale). Ora, la curva IS (investimenti e risparmi), dal momento che si ipotizza che il tasso di interesse diminuisca, scende per definizione verso il basso, ed inoltre va verso destra perché un tasso di interesse minore favorisce l’investimento e dunque aumenta il reddito. Di contro, la curva LM – ovvero della Liquidità e della Moneta – andando nella direzione di un aumento del reddito, è inevitabile che ad un certo punto prenda a salire verso l’alto perché, con una data quantità di moneta, il reddito non può continuare a salire indefinitamente, e dunque i tassi di interesse aumentano ed il reddito ferma la sua ascesa. La spiegazione, con un po’ di pazienza, si capisce, ma in effetti non è così chiaro il perché delle premesse.
[2] Il ‘premio del rischio’ è semplicemente una minima quantità di denaro che nella aspettativa di ritorno di un bene o asset con un certo rischio deve eccedere il ritorno di un bene senza rischio, per indurre l’individuo appunto a rischiare.
[3] Come si legge, la tabella indica i due periodi attraversati da recessioni (le righe grigie) – il 1986/1994 ed il 1996/2012. Si badi che la tabella misura la percentuale di lavoratori che non hanno avuto alcuna variazione salariale, cosicché più la percentuale è alta e più i salari sono rigidi. Se ben capisco, la tabella mostra che i periodi recessivi sono accompagnati ed anche seguiti per un po’ da fenomeni di più elevata stabilità (vischiosità o rigidità) dei salari; dunque le recessioni non sono accompagnate da riduzioni di salari perché la loro vischiosità o rigidità è forte proprio quando dovrebbero scendere verso il basso.
agosto 25, 2013
August 25, 2013, 10:57 am
I’m thinking about Ibn Khaldun this weekend, and there is, it turns out, at least one translation of Ibn Khaldun’s Muqaddimah (pdf) available online — and based on an initial skim, it truly is an awesome work, centuries ahead of its time. I was especially struck by his opening manifesto:
Such is the purpose of this first book of our work. (The subject) is in a way an independent science. (This science) has its own peculiar object-that is, human civilization and social organization. It also has its own peculiar problems,that is, explaining the conditions that attach themselves to the essence of civilization, one after the other. Thus, the situation is the same with this science as it is with any other science, whether it be a conventional 17 or an intellectual one.
It should be known that the discussion of this topic is something new, extraordinary, and highly useful. Penetrating research has shown the way to it.
I read this as a declaration that Ibn Khaldun was setting himself up to be the Hari Seldon of medieval Islam. And he did a pretty good job!
Ibn Khaldun, psicostorico [1]
Sto pensando in questo fine settimana a Ibn Khaldun e scopro che c’è almeno una traduzione del “Muqaddimah” [2] di Ibn Khaldun disponibile on-line – e sulla base di una iniziale scorsa, è veramente un lavoro imponente, avanti di secoli rispetto al suo tempo. Sono stato specialmente colpito da questo manifesto di apertura:
“Tale è il proposito del primo libro del nostro lavoro. (Il tema) è in un certo senso una scienza indipendente. (Questa scienza) ha un suo particolare oggetto – vale a dire la civilizzazione umana e l’organizzazione sociale. Ha anche i suoi peculiari problemi, vale a dire, spiegare le condizioni che si collegano all’essenza della civilizzazione, una dopo l’altra. Quindi con questa scienza la situazione è la stessa di qualsiasi altra scienza, sia che si tratti di un convenzionale “17” [3] che di una disciplina intellettuale.”
Dovrebbe esser noto che il dibattito su questo tema è qualcosa di nuovo, di straordinario e di estremamente utile. Una ricerca penetrante ha mostrato come avvicinarsi ad esso.
La leggo come una dichiarazione per la quale Ibn Khaldun si stava apprestando ad essere lo Hari Seldon [4] dell’Islam medioevale. E fece una gran bel lavoro!
[1] La Psicostoria nell’universo di Isaac Asimov è una scienza che combina storia, sociologia ed altre discipline sino alla matematica statistica al fine di fare previsioni sui comportamenti futuri di gruppi molto ampi di individui, come i componenti dell’Impero Galattico (da Wikipedia in inglese).
[2] E’ un termine arabo che dovrebbe corrispondere al latino “Prolegomena”.
محمد
عبد
THE MUQADDIMAH
Abd Ar Rahman bin Muhammed ibn Khaldun
Translated by
Franz Rosenthal
[3] Tiro ad indovinare: si potrebbe trattare del terzo numero primo del matematico Francese Fermat, che su Wiki ha questa forma: . Sennonché Pierre de Fermat era successivo di circa due secoli … Quel “17”, per ragioni che non so spiegare, avrebbe anche una importante applicazione in geometria … Ma la mia soluzione si basa soltanto sul fatto che le altre soluzioni alla voce di ‘disambiguazione’ di “17” sono del tutto irragionevoli.
[4] Ed Hari Seldon è un personaggio delle serie fantascientifiche di Asimov.
agosto 24, 2013
August 24, 2013, 4:47 pm
Simon Wren-Lewis is deeply annoyed at the IMF, and understandably so. How can you publish a paper about fiscal adjustment that explicitly takes no account of monetary policy, and claim that it has any relevance to current problems?
In general, trying to do policy-relevant macroeconomics these past 5 years has felt like the curse of Sisyphus: you labor mightily to get some simple but essential point across, you think that maybe, finally, you’re getting through. Then along comes some famous economist or report from an influential agency that rolls the level of the discussion right back down to the bottom.
The central fact of macro policy in these times isn’t subtle:
In normal times, the central bank can offset fiscal contraction by cutting interest rates. Since late 2008, however, the interest rates the Fed can control have been limited by the zero lower bound. This means that there is no offset to the negative effects of fiscal consolidation — which means that this is not the time to be doing such consolidation, which should wait until we emerge from this condition. We’re in a St. Augustine economy: Grant me chastity and continence, but not yet.
This isn’t complicated, and it isn’t new — it’s what we’ve been saying for almost 5 years. There are arguments one can make on the other side, although the two main ones — expansionary austerity and the supposed existence of a red line on debt at 90 percent of GDP — have imploded. Still, I guess a paper offering a new argument for front-loaded austerity might be worth reading.
But to put out a paper in 2013 that simply ignores the whole issue bespeaks a level of, well, denseness that leaves one breathless.
La macroeconomia di Sisifo
Simon Wren-Lewis è profondamente irritato con il FMI e comprensibilmente. Come si può pubblicare uno studio sulle correzioni nella finanza pubblica che non tiene in nessun conto la politica monetaria, e sostenere che essa una qualche rilevanza sui problemi attuali?
In generale, cercare di fare della macroeconomia che avesse un qualche rilievo sulla politica nei cinque anni passati ha fatto l’effetto della maledizione di Sisifo: si lavora moltissimo per trasmettere qualche aspetto semplice ma essenziale, si pensa che, forse, finalmente, di esserci riusciti. Poi arriva qualche famoso economista o un rapporto da un agenzia influente che riportano il livello della discussione al punto più basso.
Il fatto centrale della politica macroeconomica di questi anni non è inafferrabile [1]:
In tempi normali la banca centrale può bilanciare la contrazione della finanza pubblica tagliando i tassi di interesse. A partire dalla fine del 2008, i tassi di interesse che la Fed può controllare sono stati limitati dal ‘limite inferiore di zero’ [2]Questo significa che non c’è alcun bilanciamento degli effetti negativi di un consolidamento della finanza pubblica – il che significa che questi no sono i tempi per operare tale consolidamento, che dovremmo attendere di uscire da questa condizione. Siamo nell’ambito di una economia alla San Agostino: concedimi la castità e la continenza, ma non subito.
Non è complicato e non è una novità – è quello che stiamo dicendo fa quasi 5 anni. Ci sono argomenti che si possono avanzare dall’altro versante; sebbene i due principali – la austerità espansiva e la supposta esistenza di una linea rossa quando il debito raggiunge il 90 per cento del PIL – siano entrati in crisi. Eppure, suppongo che uno studio che offrisse una nuovo argomento per una austerità collocata nel periodo iniziale meriterebbe di essere letto.
Ma uscire nel 2013 con uno studio che semplicemente ignora l’intera tematica indica un livello di, è il caso di dire, ottusità che lascia senza fiato.
[1] La tabella mostra l’evoluzione del cosiddetto “tasso di finanziamento federale”, ovvero il tasso di interesse che la “Banca Centrale applica agli istituti più autorevoli quando essi prendono e danno in prestito finanziamenti overnight l’uno con l’altro” (Investopedia).
[2] Vedi note sulla traduzione a “zero lower bound”.
agosto 24, 2013
August 24, 2013, 4:31 pm
Thank you, Matthew Klein! In the course of critiquing Robert Hall’s paper for Jackson Hole, he mentions and links to another half-century-old paper by James Tobin, Commercial Banks as Creators of “Money” (pdf), that I had forgotten about, and is even more precisely on point than the Tobin-Brainard piece I’ve been citing.
All the points I’ve been trying to make about the non-specialness of banks are there. In particular, the discussion on pp. 412-413 of why the mechanics of lending don’t matter — yes, commercial banks, unlike other financial intermediaries, can make a loan simply by crediting the borrower with new deposits, but there’s no guarantee that the funds stay there — refutes, in one fell swoop, a lot of the nonsense one hears about how said mechanics of bank lending change everything about the role banks play in the economy.
Banks are just another kind of financial intermediary, and the size of the banking sector — and hence the quantity of outside money — is determined by the same kinds of considerations that determine the size of, say, the mutual fund industry.
Banche commerciali come creatrici di “Moneta”
Grazie, Matthew Klein! Nell’ambito della critica allo studio di Robert Hall per Jackson Hole [1], egli ricorda e ci connette con un altro vecchio saggio di mezzo secolo fa di James Tobin, “Banche commerciali come creatrici di ‘Moneta’” (disponibile in pdf), del quale mi ero dimenticato, ed è persino più preciso sul punto in questione del pezzo di Tobin-Brainard che venivo citando.
Ci sono tutti gli argomenti che stavo cercando di avanzare sul tema della non peculiarità delle banche. In particolare, la discussione alle pagine 412-413 sul perché la meccanica del dare sodi in prestito non è importante – sì, le banche commerciali, diversamente dagli altri intermediari finanziari, possono realizzare un mutuo semplicemente accreditando chi prende denaro in prestito con nuovi depositi, ma non c’è alcuna garanzia che i fondi restino lì – confuta, con un colpo solo [2], una quantità di cose insensate che si sentono dire su come queste cosiddette meccaniche dei prestiti bancari cambino ogni cosa sul ruolo che le banche giocano in economia.
Le banche sono soltanto un altro genere di intermediari finanziari, e la dimensione del settore bancario – e di conseguenza la quantità di moneta in circolazione – è determinata dallo stesso tipo di considerazioni che determinano, diciamo, la dimensione del settore dei fondi di investimento.
[1] Sede di convegni organizzati dalla Federal Reserve.
[2] “In (at) one fell swop” pare sia una espressione idiomatica abbastanza misteriosa, nel senso che il suo significato acquisito non è ben ricostruibile sulla base delle parole che la compongono, al punto che esse spesso variano. “Swoop” significa “avventarsi, piombare”, ma anche “fell” (si dice dell’abbattere un albero, o dell’inciampare …) non è chiarissimo in questo contesto. Secondo “The Phrase Finder” si tratta di espressioni che erano riconoscibili dai nativi secoli orsono, ma che oggi hanno mantenuto soprattutto il loro significato complessivo. Il senso comunque dovrebbe essere “improvvisamente, in una singola azione”.
agosto 24, 2013
August 24, 2013, 9:38 am
I am not a tech industry maven, so I am busy coming up to speed on the implications of the Ballmer resignation. And what I’m about to say may be obvious to many. Still, I think it’s worth saying: there is, once you look past the surface, a remarkable symmetry between Microsoft’s strategy in its heyday and Apple’s strategy today.
The Microsoft story is familiar. Back in the 80s, Microsoft and Apple both had operating systems to sell; Apple’s was clearly better. But Apple misunderstood the nature of the market: it said, “We have a better system, so we’re going to make it available only on our own beautiful machines, and charge premium prices.” Meanwhile Microsoft licensed its system to lots of people making cheap machines — and established a commanding position through network externalities. People used Windows because other people used Windows — there was more software available, corporate tech departments were prepared to provide support, etc..
This dominance persists to this day: I’m writing this post on a notebook running Windows 7, and won’t even consider getting an Apple notebook — mainly because the wonderful people in the Wilson School IT department, who have saved my life multiple times, aren’t set up to deal with Apple products.
But Microsoft missed the boat on mobile devices, while Apple got temporarily ahead of the curve. I say “temporarily”, because as far as I can tell Apple products no longer have a dramatic quality edge. I’ve had an iPhone — which, sad to say, did not survive dunking in water — and now have a Samsung, and the differences don’t seem huge. I have an iPad 2, which I bought for the picture quality; but when I decided I also wanted a small tablet that I could carry around in my jacket pocket, it turned out that the iPad Mini wasn’t significantly better than several Android competitors, and in fact for my purposes worse in some ways. (More about that after the jump).
Now, unlike Microsoft, Apple isn’t selling an inferior product. But it’s selling products that are little if any better than competitors, at premium prices. How can it do that? Again, network externalities: mainly a much deeper bench of apps, or so I’m told (I actually don’t use many).
So how do the prospects for Apple’s reign look compared with those of Microsoft? Let’s not forget that Microsoft is actually an incredible success story — it maintained its PC lock for decades, and in fact still retains that lock today; it’s just that the market is changing. My casual impression is that Apple’s lock isn’t nearly as secure, in part because it’s relying on the loyalty of individual customers — in contrast to Microsoft, which was largely relying on the loyalty of corporate IT managers, who are inherently more conservative.
Anyway, fun stuff. My complaint about Apple after the jump.
So, my problem with Apple. In general, the thing about Apple is that it reflects the spirit of Steve Jobs, who knew what was good for you — and left you no way to do things differently. And if you are an atypical user, you end up putting a lot of effort into fighting iOS in order to do simple things.
Case in point: as regular readers know, I really like watching live performances on YouTube; and I want the best of them available even when I don’t have access to broadband. So I download them onto my PC as MP4s — there are many add-ons that will do this.
But I actually want them on a tablet. To do this in iOS, you first have to import them into iTunes, then synch; not too big a pain, but still a couple of annoying extra steps. The big problem, however, comes when you want to organize your videos: how do I tell iTunes that, say, my 10 favorite Arcade Fire performances are a related set?
Well, the only way I’ve found is to convince iTunes that they are episodes of a nonexistent TV show. It’s doable, but stupid. Whereas on my Nexus 7 I just copy them into a folder named “Arcade Fire”, and there they are.
Sulla simmetria tra Microsoft ed Apple
Non sono un esperto di tecnica industriale, cosicché sono impegnato a cercare di affrettarmi sulle implicazioni delle dimissioni di Ballmer [1]. E quanto sto per dire potrà essere ovvio per molti. Eppure, penso che meriti dirlo: c’è, quando si guarda al passato in superficie, una considerevole simmetria tra la strategia di Microsoft al suo apice e la strategia di Apple di questi giorni.
La storia di Microsoft è nota. Nei passati anni ’80 Microsoft ed Apple avevano entrambi sistemi operativi da vendere; Apple era chiaramente migliore. Ma Apple fraintese la natura del mercato: disse “Abbiamo un sistema migliore, dunque ci orientiamo a renderlo disponibile solo sulle nostre magnifiche macchine, ed a caricare prezzi addizionali”. Nel frattempo Microsoft autorizzò il suo sistema ad una gran quantità di persone che costruivano macchine economiche – e stabilì una posizione di comando attraverso esternalità di rete [2]. La gente usava Windows perché altra gente usava Windows – c’era più software disponibile, i settori tecnici dell’impresa furono pronti a fornire il supporto, etc.
Questo dominio è durato sino ad oggi: io sto scrivendo questo post su un notebook che va con Windows 7 e non prendo neppure in considerazione di dotarmi di un notebook Apple – principalmente perché quegli individui meravigliosi del Dipartimento di informatica della Wilson School, che mi hanno salvato la vita una infinità di volte, non sono organizzati per misurarsi con i prodotti Apple.
Ma Microsoft perse il treno [3] sui congegni mobili, mentre Apple in quel caso fu lungimirante. Dico “in quel caso”, perché per quanto posso dire i prodotti Apple non hanno più uno spettacolare vantaggio qualitativo. Io ho avuto un iPhone – che, triste a dirsi, non è sopravvissuto ad una immersione in acqua – ed ora ho un Samsung, e le differenze non sembrano così grandi. Ho un iPad 2, che ho acquistato per la qualità delle immagini; ma quando ho deciso che volevo anche un piccolo tablet che potevo portarmi in giro nella tasca della mia giacchetta, ho scoperto che iPad Mini non è significativamente migliore di parecchi competitori Android, e di fatto in vari sensi è peggiore per i miei scopi (dirò di più al proposito dopo la digressione [4]).
Ora, diversamente da Microsoft, Apple non sta vendendo un prodotto inferiore. Ma sta vendendo prodotti che sono appena migliori di quelli dei competitori, a prezzi maggiorati. Come può farlo? Ancora, con le esternalità di rete; fondamentalmente una riserva più profonda di applicazioni, o almeno così mi si dice (io effettivamente non ne uso molte).
Dunque, come confrontare le prospettive del regno della Apple con quelle di Microsoft? Non si dimentichi che Microsoft ha una incredibile storia di successo – ha mantenuto per decenni il dispositivo di proprietà dei suoi PC, e di fatto lo mantiene ancora oggi; soltanto che il mercato sta cambiando. La mia impressione superficiale è che il dispositivo di Apple non sia neppure lontanamente altrettanto sicuro, in parte perché si basa sulla fedeltà di clienti individuali – in contrasto con Microsoft, che si basa ampiamente sulla fedeltà dei manager della società informatica, che sono intrinsecamente più conservatori.
In ogni caso, cose divertenti. (Ora) la mia lamentela a proposito di Apple dopo la digressione.
Dunque, il mio problema con Apple. In generale, la faccenda con Apple è che essa riflette lo spirito di Steve Jobs, che sapeva cosa andava bene per voi e non vi lasciava alcun modo di fare le cose diversamente. E se voi siete un utilizzatore atipico, finite col fare grandi sforzi per combattere contro i congegni della Apple [5] per fare cose semplici.
Esempio emblematico: come i lettori affezionati sanno, mi piace molto guardare le prestazioni in diretta su You Tube; e voglio il meglio che è disponibile anche quando non ho accesso alla banda larga. Dunque li trasferisco sul mio PC come MP4 [6] – ci sono molte componenti aggiuntive che lo possono fare.
Ma io in effetti li voglio su un tablet. Per fare questo sui congegni Apple, si deve prima importarli su iTunes, poi sincronizzarli; non è un gran fastidio, eppure si tratta di un paio di irritanti passaggi aggiuntivi. Il grande problema, tuttavia, viene quando volete organizzare i vostri video: come faccio a dire ad iTunes, ad esempio, che le mie preferite dieci prestazioni di Arcade Fire sono un gruppo in connessione?
Ebbene, l’unico modo che ho trovato è stato convincere iTunes che essi sono episodi di uno show televisivo che non esiste. E’ fattibile ma è stupido. Mentre sul mio Nexus 7 semplicemente li copio in una cartella dal titolo Arcade Fire, e là stanno.
[1] Steven Anthony Ballmer è un imprenditore e informatico statunitense. È amministratore delegato di Microsoft dal 27 giugno 2008, a seguito delle dimissioni di Bill Gates.
[2] “Network externalities” sono gli effetti su un utilizzatore di un prodotto o di un servizio di altri che utilizzano gli stessi o i compatibili prodotti e servizi. Tali esternalità sono positive se I benefici sono una funzione che cresce con il numero degli altri utilizzatori, Sono, invece, naturalmente negative nel caso opposto. Questa è la definizione tecnica; più semplicemente mi pare chiaro che il meccanismo possa produrre benefici alla condizione che chi ha realizzato per primo il prodotto abbia alcune condizioni favorevoli nel contratto con il quale ha venduto il brevetto, o qualcosa del genere.
[3] Gli americani dicono “perdere la barca” dove noi diciamo “perdere il treno”, per ragioni non del tutto coerenti con la geografia.
[4] Tradurre “jump” con digressione è forse impreciso …. Ma il significato è il seguente: nel blog questo post termina ad un certo punto, mentre la seconda parte relative alle personali lamentele come consumatore di Krugman è disponibile solo per chi abbia voglia ad aprire la pagina interna. Per curiosità e divertimento personale ho tradotto anche la seconda parte. Quindi quella che traduco con ‘digressione’ è un ‘salto’ alla pagina interna. Si tenga comunque presente che un possibile non casuale interesse di tutta questa materia – a parte gli aspetti scherzosi – lo si può rinvenire tornando a leggere un post del 19 giugno dal titolo “In che senso questi tempi sono diversi?”. Il tutto serve appunto ad illuminare il tema di quanto l’industria americana contemporanea – come scriveva allora Krugman – sia “ … fondamentalmente costruita sulla tecnologia, sul design e sul marchio”.
[5] iOS (precedentemente iPhone OS) è un sistema operativo sviluppato da Apple per iPhone, iPod touch e iPad.
[6] In elettronica e telecomunicazioni MPEG-4, nato nel 1996 e finalizzato nel 1998 (fu presentato pubblicamente ad ottobre di quell’anno), è il nome dato a un insieme di standard per la codifica dell’audio e del video digitale sviluppati dall’ISO/IEC Moving Picture Experts Group (MPEG). L’MPEG-4 è uno standard utilizzato principalmente per applicazioni come la videotelefonia e la televisione digitale, per la trasmissione di filmati via Web, e per la memorizzazione su supporti CD-ROM.
agosto 22, 2013
August 22, 2013, 8:31 am
So, the flood of money into emerging markets now looks in retrospect like another bubble. For the moment, I don’t see a good reason to believe that the bursting of this particular bubble will be catastrophic — what made the Asian crisis of 1997-8 so bad was the high level of foreign-currency denominated debt, and that seems less of an issue now. In fact, the main danger, as Ryan Avent says, seems to be policy overreaction: countries raising interest rates to defend indefensible exchange rates, leading to unnecessary slumps. But I have to admit that I’m less certain than usual about my diagnosis, because I’m still coming up to speed on the Indian economy in particular.
Here, however, is a side question: why have we been having so many bubbles?
The answer you hear from a lot of people is that it’s all caused by excessively easy money. But let’s think about the longer-term history for a bit. Here’s long-term U.S. interest rates since the early 1950s:
As you can see, there was a period of very high rates in the inflationary 70s and early 80s. Rates fell after the Volcker stabilization, but they stayed relatively high by 50s/60s standards through the late 80s, the 90s, and even for much of the naughties.
Now, the thing you need to realize is that the whole era since around 1985 has been one of successive bubbles. There was a huge commercial real estate bubble (pdf) in the 80s, closely tied up with the S&L crisis; a bubble in capital flows to Asia in the mid 90s; the dotcom bubble; the housing bubble; and now, it seems, the BRIC bubble. There was nothing comparable in the 50s and 60s.
So, was monetary policy excessively easy through this whole period? If so, where’s the inflation? Maybe you can argue that loose money, for a while, shows up in asset prices rather than goods prices (although I’ve never seen that argument made well). But for a whole generation?
So what was different? The answer seems obvious: financial deregulation, including capital account liberalization. Banks were set free — and went wild, again and again.
Generazione B (per “bolla”)
Dunque, l’ondata di moneta nei mercati emergenti ora appare in retrospettiva come un’altra bolla. Per il momento, io non vedo buone ragioni per credere che l’esplosione di questa particolare bolla sia catastrofica – quello che rese la crisi asiatica del 1997-8 così negativa fu l’alto livello di debito assunto in moneta straniera, e questo sembra oggi un problema minore. Di fatto, il pericolo principale, come dice Ryan Avent, sembra essere un eccesso di reazione da parte della politica: paesi che alzano i tassi di interesse per difendere tassi di cambio indifendibili, portando a cadute non necessarie. Ma devo ammettere di essere meno sicuro del solito della mia diagnosi, perché sto ancora procedendo a intensificare (la mia conoscenza) sull’economia indiana in particolare.
C’è, tuttavia, un aspetto connesso: perché abbiamo avuto così tante bolle?
La risposta che si sente da tante persone è che è stato tutto provocato da una moneta eccessivamente facile. Ma ragioniamo un po’ sulla storia a più lungo termine. Ecco i tassi di interesse a lungo termine degli Stati Uniti a partire dai primi anni ’50:
Come si può vedere ci fu un periodo di tassi molto elevati durante gli inflazionistici anni ’70 e primi anni ’80. I tassi caddero a seguito della stabilizzazione di Volcker [1], ma essi restarono relativamente alti per gli standards degli anni ’50 e ’60 attraverso l’ultima parte degli anni ’80, gli anni ’90 ed anche per buona parte degli anni duemila.
Ora, la cosa che si deve capire è che l’intero periodo a partire da circa il 1985 è stato un’epoca di bolle in successione. C’è stata negli anni ’80 una bolla immobiliare nel settore delle costruzioni commerciali, strettamente collegata con la crisi degli istituti di “risparmio e prestito” [2]; una bolla nei flussi finanziari verso l’Asia alla metà degli anni ’90; la bolla delle società operanti attraverso Internet [3] ; la bolla immobiliare residenziale; ed ora, a quanto pare, la bolla dei BRIC. Non c’era stato niente di simile nel corso degli anni ’50 e ’60.
Dunque, la politica monetaria durante questo intero periodo fu eccessivamente lassista? Se così fosse stato, dove era l’inflazione? Si può forse sostenere che la moneta facile, per un certo periodo, è messa in evidenza più attraverso i prezzi degli assets che attraverso i prezzi dei beni (sebbene non abbia mai trovato esposto adeguatamente quell’argomento). Ma per una intera generazione?
Dunque, cosa c’è stato di diverso? La risposta sembra evidente: la deregolamentazione finanziaria, inclusa la liberalizzazione dei movimenti dei capitali. Le banche sono state lasciate libere – e sono diventate sempre di più senza freni.
[1] Paul Volcker, allora Presidente della Fed.
[2] La crisi degli istituti “di risparmio e di concessione di mutui” degli Stati Uniti, nel corso degli anni ’80 e dei primi anni ’90, consistette nel fallimento di ben 747 “associazioni” di tali istituti su un totale di 3.234. Nel 1996 si stimò che il costo totale di questi fallimenti (e probabilmente dei relativi indennizzi ai risparmiatori) era stato di 370 miliardi di dollari, 341 dei quali a carico dei contribuenti. Il sistema suddetto, per alcuni aspetti potrebbe forse essere paragonato al nostro tradizionale sistema della Casse di Risparmio.
agosto 21, 2013
August 21, 2013, 11:23 am
There has been a lot of commentary on Neil Irwin’s report on why the White House doesn’t want Janet Yellen to chair the Fed, with good reason. The merits of Yellen versus Summers aside, it sounds as if the WH wants Summers, and doesn’t want Yellen, for all the wrong reasons. They want a team player — and consider Yellen’s somewhat independent stance as a liability, even though she has been consistently right. They consider Yellen diminished because she wasn’t part of the team making policy in 2009 — when most people outside the WH don’t consider 2009 anything like a policy triumph.
Let’s break that last one down a bit more. It is overwhelmingly clear that, as some of us warned at the time, the stimulus was too small and too short-lived. We can argue until we’re blue in the face whether the WH could have gotten a bigger stimulus, or at least built into its plans a mechanism to get additional stimulus down the road, say via reconciliation; we can also argue about whether it could have driven a harder bargain with the banks, possibly taking one or two into receivership to encourage the others. What’s clear, however, is that the inner circle badly misjudged the scale of the problem — and their overoptimistic forecasts and pronouncements haunt them to this day.
Oh, and Yellen was right when they were wrong.
So how has 2009 become the administration’s economic Camelot, the golden age — in their own minds — when they achieved miracles, so that anyone who wasn’t there is considered second-class? Not too hard to understand: a bit of incestuous amplification, patting each other on the back so that they feel good about what the rest of the world considers a job poorly done. But it’s disturbing nonetheless.
And about being a team player: this is really bad, because it’s contrary to the whole concept of the Fed. The Federal Reserve chair is not supposed to be part of the administration’s team — he or she is supposed to be an independent force, and independence of intellect is a plus, not a minus (especially when, once again, you’ve been right, as Yellen has).
Cardiff Garcia mocks the WH position as being that they want a pushover who would be fun to have a beer with during a crisis — and there’s enough truth there to make it sting.
All in all, this whole episode is not making anyone think better of Obama’s judgment.
Il 2009 e tutto il resto
Ci sono stati molti commenti sul resoconto di Neil Irwin sul perché la Casa Bianca non vuole, con buone ragioni, Janet Yellen alla presidenza della Fed. A parte i meriti della Yellen nei confronti di Summers, sembra che la Casa Bianca voglia Summers, e non voglia la Yellen, esattamente per ragioni sbagliate. Vogliono uno che faccia il gioco di squadra, e considerano la posizione in qualche modo indipendente della Yellen come un difetto, anche se ella ha avuto regolarmente ragione. Considerano un difetto della Yellen il fatto che non facesse parte della squadra che fece le scelte politiche nel 2009 – quando gran parte delle persone all’esterno della Casa Bianca non considerano il 2009 esattamente come un trionfo politico.
Fatemi analizzare un po’ più a fondo quest’ultimo punto. E’ assolutamente chiaro che, come alcuni di noi misero in guardia a quel tempo, le misure di sostegno furono troppo piccole e di troppo breve durata. Possiamo litigare fino a diventare scuri in volto sul fatto che la Casa Bianca poteva assumere misure di sostegno più grandi, o almeno incorporare il suo piano in un meccanismo per ottenere maggiori misure durante il percorso, ad esempio attraverso la ‘riconciliazione’ [1] : possiamo anche litigare sul fatto che si poteva indirizzarsi verso un negoziato più duro con le banche, mettendone magari una o due in amministrazione controllata per incoraggiare le altre. Quello che è chiaro, tuttavia, è che il gruppo ristretto dei decisori fraintese gravemente la dimensione del problema – e le loro previsioni e pronunciamenti più che ottimistici li hanno perseguitati sino ad oggi.
Aggiungiamo che la Yellen in quel caso aveva ragione e loro avevano torto.
Dunque, il 2009 è diventato il Camelot [2] economico della Amministrazione, l’età d’oro – nelle loro menti – nella quale ottennero miracoli, cosicché tutti quelli che non erano con loro sono considerati di seconda categoria? Non è troppo difficile da capire: un po’ di ‘incestuosa amplificazione’ [3], dandosi l’uno con l’altro pacche sulle spalle in modo da sentirsi a proprio agio per qualcosa che il resto del mondo considera un lavoro scadente. Ma, nondimeno, è irritante.
Ed a proposito di saper fare il gioco di squadra: questo è davvero negativo, perché è l’opposto del modo in cui la Fed è stata concepita. Il Presidente della Federal Reserve non è stato pensato come un componente della squadra di Governo – lui o lei si suppone che siano soggetti indipendenti, e l’indipendenza intellettuale è un rafforzativo, non un diminutivo (specialmente, è il caso di ripetere, quando si è avuto ragione, come nel caso della Yellen).
Cardiff Garcia ironizza sulla posizione della Casa Bianca come se essi volessero un interlocutore facile, con il quale è divertente prendere una birra durante una crisi – e in questo c’è abbastanza verità da renderlo doloroso.
Nel complesso, tutta questa faccenda non sta inducendo nessuno a dare una valutazione migliore della capacità di giudizio di Obama.
[1] La “reconciliation” è una misura di emendamento in ultima istanza della legislazione finanziaria, che consente alla Camera dei Rappresentanti di approvare misure a maggioranza semplice. E, all’epoca dello “stimulus”, il problema era che i Democratici disponevano sì di una maggioranza, ma insufficiente a superare un uso ostruzionistico messo in atto dai Repubblicani sull’obbligo di maggioranze qualificate.
[2] Camelot era la fortezza del leggendario Re Artù. Fu citata per la prima volta da Chrétien de Troyes nel suo poema Lancillotto o il cavaliere della carretta, e acquisì un’importanza via via crescente nelle opere che, nel corso dei secoli, svilupparono la mitologia del ciclo arturiano (Wikipedia)
[3] E’ una strana espressione coniata negli ambienti militari del Pentagono, e sta a significare la attitudine ai ‘complimenti gregari’, ovvero alla auto propaganda che conduce a perseverare nelle iniziative sbagliate. Il termine, se non sbaglio, venne coniato agli inizi della guerra irachena. Perché tale condotta sia stata definita ‘incestuosa’ non l’ho mai trovato spiegato e forse deriva da patologie militaresche.
agosto 19, 2013
August 19, 2013, 1:22 pm
John Quiggin has an interesting take on some of what two modern Ks — me and Mike Konczal — have been saying about two illustrious former Ks — Keynes and Kalecki. Interesting comment thread too — if you’re not reading Crooked Timber, you’re missing out.
I just want to add one thing. Quiggin remarks,
Krugman is certainly going to upset plenty of people in the econ profession with this. But as with most partisan debates in recent decades, it’s a case of sauce for the gander. The public choice school has routinely represented economic arguments for government intervention as the product of rent-seeking by interest groups, and the economists who make such arguments as pawns or hirelings of these groups.
It’s not just the public choice school. Let’s not forget Robert Lucas’s smear of Christy Romer. First he denounced the stimulus with an argument that was, in fact, wrong even on its own terms. Then he flat out accused Romer of pure hackery:
Christina Romer — here’s what I think happened. It’s her first day on the job and somebody says, you’ve got to come up with a solution to this — in defense of this fiscal stimulus, which no one told her what it was going to be, and have it by Monday morning.
So she scrambled and came up with these multipliers and now they’re kind of — I don’t know. So I don’t think anyone really believes. These models have never been discussed or debated in a way that that say — Ellen McGrattan was talking about the way economists use models this morning. These are kind of schlock economics.
Maybe there is some multiplier out there that we could measure well but that’s not what that paper does. I think it’s a very naked rationalization for policies that were already, you know, decided on for other reasons.
So I don’t feel much sympathy for anti-Keynesians who reach for the smelling salts when someone suggests that politics influences their ideology.
Keynes, Kalecki, Konczal etc.
John Quiggin ha una interessante presa di posizione su quanto i due “K” contemporanei – il sottoscritto e Mike Konczal – vengono dicendo sui due più antichi ed illustri “K” – Keynes e Kalecki. Anche interessante la trama dei commenti – se non siete lettori del blog Crooked Timber, siete destinati a non vederla.
Intendo solo aggiungere una considerazione. Sottolinea Quiggin:
“In questo momento Krugman sta certamente irritando una quantità di persone nella disciplina economica. Ma come una gran parte di dibattiti partigiani dei decenni passati, c’è reciprocità [1]. La scuola (della Teoria) della Scelta Pubblica [2] ha regolarmente rappresentato gli argomenti economici favorevoli all’intervento pubblico come il prodotto della ricerca di una rendita da parte di gruppi di interesse, e gli economisti che usano tali argomenti come pedine o mercenari di questi gruppi.”
Non si tratta soltanto della scuola (della Teoria) della Scelta Pubblica. Non si dimentichi la calunnia di Robert Lucas verso Christy Romer. In primo luogo egli denunciò le misure di sostegno con un argomento che era, nei fatti, sbagliato persino nei suoi stessi termini. Poi accusò senza mezzi termini la Romer
“Christina Romer … ecco quello che penso sia successo. E’ il suo primo giorno di lavoro e qualcuno le dice, devi venire a capo di questa faccenda … a difesa delle misure di sostegno pubbliche, che nessuno le aveva detto erano quelle che si stavano decidendo, e devi farlo entro lunedì mattina.
Cosicché ella parte in quarta e si inventa questi moltiplicatori, e ora essi sono di tale natura …. non saprei. Così io non credo che nessuno ci creda per davvero. Questi modelli non sono mai stati discussi o dibattuti in un modo che, vale a dire …. quello che questa mattina Ellen McGrattan diceva a proposito del modo in cui gli economisti utilizzano i modelli. Sono ciarpame di economia.
Può darsi che in giro ci sia qualche moltiplicatore che potrebbe misurare correttamente ma non è quello che si fa in quello studio. Penso che esso sia una pura razionalizzazione a favore di politiche che già si conoscono, che sono state decise per altre ragioni.”
Dunque, non nutro molta simpatia per gli anti keynesiani che si attaccano ai sali [3] quando qualcuno suggerisce che la politica influenzi la loro ideologia.
[1] Letteralmente “è un caso di salsa per il papero”. Espressione idiomatica che deriva da questo detto originario: “Quello che è un intingolo per l’oca è anche un intingolo per il papero”. O anche: “Chi la fa l’aspetti”, o “Chi di spada ferisce, di spada perisce” e così via.
[2] La teoria della scelta pubblica (Public Choice) è una teoria economica elaborata negli Stati Uniti negli anni sessanta e sviluppata negli anni settanta, principalmente ad opera di James M. Buchanan che nel 1986 per questi studi vinse il Premio Nobel per l’economia.
[3] Ovvero, ai sali ammoniacali che si usano per rinvenirsi:
agosto 19, 2013
August 19, 2013, 1:03 pm
Antonio Fatas and Ilan Mihov have a new paper in which they propose rethinking the way we classify business cycles. I’m still trying to decide what I think of their methodology, and I’m troubled by their dates – for example, I don’t believe that the U.S. economy was operating at capacity in late 1992. But I’m very much in sympathy with their underlying view about the asymmetry between booms and busts; the question is why, exactly, it feels right.
Here’s how I’d put it: Fatas and Mihov have an Anna Karenina view of booms and busts, in which all happy economies are alike, but each unhappy economy is unhappy in – well, not exactly its own way, but certainly to its own extent. Business cycle peaks are always times when the economy is operating at capacity; troughs are times when the economy is operating below capacity, but how far below varies from cycle to cycle.
This is not at all what standard New Keynesian models say. In those models “potential output” is what the economy would produce if prices were perfectly flexible. (Leave on one side the question of whether flexible prices get you to full employment in a liquidity trap, especially with problems of debt overhang). In the short run, however, prices are sticky, so we’re often not at potential; but the economy can run above as well as below potential, and in fact there would be no necessary reason why underemployment should be more common than overemployment.
Largely thanks to this theoretical conclusion, it has become standard to describe the job of monetary policy as one of “stabilization”, rather than the achievement of full employment.
Like Fatas and Mihov, however, I don’t think this is right. Or more accurately, I don’t feel that it’s right. What lies behind that feeling?
Partly, I think, it’s the historical record: booms are more similar than busts. To take the extreme case, clearly we’ve never had a period when the economy was as far above capacity as it was below capacity in the Great Depression. And even in the postwar record, if we look at unemployment rates, troughs – local minima in the rate – are more closely clustered than peaks – local maxima:
This difference in spread would be even more pronounced, I believe, if we adjusted for changes in demography.
There’s also the now very clear evidence that the old notion that wages are sticky downward in a way they’re not sticky upward is entirely true – and downward nominal wage rigidity eliminates the symmetry between over- and under-employment. Here’s the SF Fed data:
San Francisco Fed Percentage of workers with zero wage change
Last but maybe not least, there’s the question of what’s supposed to be going on when the economy is operating above capacity. How do you force people to work more than they would want to in equilibrium? Now, NK models do have an answer of sorts: they’re always models characterized by imperfect competition, so prices are above marginal cost, and there’s a sense in which the economy is always operating with some excess capacity in the sense that people are willing to produce more at current prices. But my vague sense is that this only gives you a limited amount of wiggle room, and that really big upward deviations in output can’t happen, while really big downward deviations can.
So, why should you care? Well, Fatas and Mihov have it right: if the business cycle is a matter of the economy falling below capacity, rather than fluctuating around potential output, the costs of recessions are much bigger than often portrayed, and focusing on “stabilization” greatly understates the importance of good macro policy.
Anna Karenina e il ciclo economico
Antonio Fatas e Ilan Mihov presentano un nuovo saggio nel quale propongono un ripensamento dei modi nei quali classifichiamo i cicli economici. Sto ancora riflettendo su che cosa pensare della loro metodologia ed ho problemi con i loro dati – ad esempio, io non credo che l’economia americana stesse operando con efficienza sulla fine del 1992. Ma sono molto d’accordo con il loro punto di vista che si fonda su una asimmetria tra espansioni e crisi; la domanda, precisamente, è perché si percepiscono le cose in questo modo?
Ecco come lo spiegherei: Fatas e Mihov hanno un punto di vista sulle espansioni e sulle crisi alla Anna Karenina, secondo il quale tutte le economie che vanno bene si assomigliano, mentre ogni economia che è nei guai, magari non è nei guai esattamente a modo suo, ma certamente in una misura che è solo sua. I punti alti del ciclo economico sono sempre tempi nei quali l’economia sta operando con tutta la sua efficienza; i punti bassi sono tempi nei quali l’economia opera al di sotto della sua capacità, ma quanto al di sotto varia da ciclo a ciclo.
Questo non è quello che dicono i modelli standard neokeynesiani. In quei modelli il “prodotto potenziale” è quello che l’economia produrrebbe se i prezzi fossero perfettamente flessibili (lasciamo da parte se i prezzi flessibili portino alla piena occupazione in una trappola di liquidità, specialmente in presenza di problemi di eccesso del debito). Nel breve termine, tuttavia, i prezzi sono vischiosi, cosicché non accade di frequente di essere al livello del nostro potenziale; ma l’economia può procedere sia sopra che sotto il potenziale, e di fatto non ci sarebbe alcuna ragione imprescindibile perché la sottoccupazione sia più comune della sovraoccupazione.
In gran parte grazie a queste conclusioni teoriche, è diventato comune descrivere il ruolo della politica monetaria nei termini della “stabilizzazione”, piuttosto che del raggiungimento della piena occupazione.
Al pari di Fatas e di Mihov, tuttavia, io non penso che questo sia giusto. O, più precisamente, non lo “sento” giusto. Cosa c’è dietro questa sensazione?
In parte, penso, si tratti degli andamenti storici: le espansioni sono più simili tra loro delle crisi. Per prendere il caso estremo, chiaramente non abbiamo mai avuto un periodo nel quale l’economia sia stata al di sopra delle sue potenzialità quanto fu al di sotto di essa nella Grande Depressione. E persino nelle prestazioni post belliche, se si guarda ai tassi di disoccupazione, i punti bassi – i minimi locali nei tassi – sono raggruppati in modo più ravvicinato tra loro dei punti alti – i massimi locali [1]:
La differenza nella distribuzione sarebbe anche più pronunciata, credo, se correggessimo i dati sulla base della demografia.
C’è anche la prova, adesso molto chiara, che la vecchia idea secondo la quale i salari sono rigidi verso il basso in un modo nel quale non lo sono verso l’alto, corrisponde interamente al vero – e la rigidità dei salari nominali verso il basso elimina la simmetria tra sovra e sotto/occupazione. Ecco i dati della Fed di San Francisco [2]:
Percentuale di lavoratori con modifiche salariali nulle. Fed San Francisco
Da ultimo ma non per ultimo, c’è la questione di quello che si pensava succedesse quando l’economia opera al di sopra della sua capacità produttiva. Come si costringono le persone a lavorare di più di quanto vorrebbero in condizioni di equilibrio? Ora, i modelli neokeynesiani hanno una risposta inadeguata: essi sono sempre modelli caratterizzati da competizione imperfetta dunque i costi sono sopra i prezzi marginali, e c’è una percezione per la quale l’economia sta sempre operando con qualche eccesso di capacità, nel senso che la gente ha voglia di produrre di più ai prezzi correnti. Ma ho la vaga impressione che questo vi dia soltanto un limitato margine di manovra, spostamenti rilevanti della produzione verso l’alto non possono proprio avvenire, mentre sono davvero possibili deviazioni verso il basso.
Perché, dunque, ci si dovrebbe preoccupare? Ebbene, Fatas e Mihov hanno ragione: se il ciclo economico è una faccenda dell’economia che cala al di sotto delle sue capacità, piuttosto che una fluttuazione attorno alla produzione potenziale, il costo delle recessioni è molto maggiore di quanto viene descritto, e focalizzarsi sulla “stabilizzazione” sottostina grandemente l’importanza di una buona politica macroeconomica.
[1] I sei punti minimi stanno in un intervallo temporale che è circa la metà dei cinque massimi. Il che, suppongo, significhi che i bassi tassi di disoccupazione tendono ad essere un fenomeno quasi unitario, mentre gli alti tassi – cioè la alta disoccupazione – tendono a ripetersi come fenomeni distinti più frequentemente.
[2] Come si legge, la tabella indica in due periodi attraversati da recessioni (le righe grigie) – il 1986/1994 ed il 1996/2012. Si badi che la tabella misura la percentuale di lavoratori che non hanno avuto alcuna variazione salariale, cosicché più la percentuale è alta e più i salari sono rigidi. Se ben capisco, la tabella mostra che i periodi recessivi sono accompagnati ed anche seguiti per un po’ da fenomeni di più elevata stabilità (vischiosità) dei salari; dunque le recessioni non sono accompagnate da riduzioni di salari perché la loro vischiosità o rigidità è forte proprio quando dovrebbero scendere verso il basso. Ovvero: c’è maggiore rigidità verso il basso che non verso l’alto.
agosto 18, 2013
August 18, 2013, 3:06 pm
A sort of side-thought inspired by Brad DeLong on the end of Malthusian economics and all that, plus what looks like deja vu all over again on the payoff or lack thereof to Big Data: whatever happened to New Growth Theory?
For a while, in the late 1980s and early 1990s, theories of growth with endogenous technological change were widely heralded as the Next Big Thing in economics. Textbooks were restructured to put long-run growth up front, with business cycles (who cared about those anymore?) crammed into a chapter or two at the end. David Warsh wrote a book touting NGT as the most fundamental development since Adam Smith, casting Paul Romer as a heroic figure leading economics into a brave new world.
And here we are, a couple of decades on, and the whole thing seems to have fizzled out. Romer has had a very interesting and productive life, but not at all the kind of role Warsh imagined. The reasons some countries grow more successfully than others remain fairly mysterious, with most discussions ending, as Robert Solow remarked long ago, in a “blaze of amateur sociology”. And whaddya know, business cycles turn out still to be important.
My own sense is that NGT never really had the elements needed to turn it into an intellectual success story; too much of it involved making assumptions about how unmeasurable things affected other unmeasurable things. It took off, briefly, partly because the subject is so important, and people wanted to be able to say something about it; meanwhile, business-cycle macro was then, as it is now, a deeply disputatious area riven by politics, and people were eager to talk about something else. In short, it was an intellectual bubble that eventually deflated of its own accord.
But it’s still amazing, for someone who remembers the excitement of the time, how completely it has all vanished from the economics landscape.
La Nuova Crescita fa cilecca
Una specie di pensiero collaterale ispirato dalla scritto di Bard DeLong sulla fine dell’economia malthusiana, in più a quello che sembra come un assoluto dejà vu ancora sui vantaggi (o sulla assenza di vantaggi) di Big Data: cosa è accaduto alla Teoria della Nuova Crescita?
Per un certo periodo, sulla fine degli anni ’80 e agli inizi degli anni ’90, teorie della crescita sulla base di un cambiamento tecnologico endogeno furono ampiamente annunziate come la Grande Cosa del Futuro in economia. I libri di testo venivano revisionati per mettere in cima il tema della crescita di lungo periodo, con i cicli dell’economia (chi se ne curava più?) ficcati in un capitolo o due alla fine. David Warsh scrisse un libro presentando la Teoria della Nuova Crescita come il più fondamentale sviluppo dall’epoca di Adam Smith, lanciando Paul Romer come il personaggio eroico che guidava la teoria economica in un audace nuovo mondo.
E, passati due decenni, siamo a questo punto, con tutta la faccenda che sembra aver fatto cilecca. Romer ha avuto una carriera molto interessante e produttiva, ma niente affatto in quel genere di ruolo che Warsh aveva immaginato. Le ragioni per la quali alcuni paesi crescono più di altri con successo restano abbastanza misteriose, con molti dibattiti che finiscono, come notava tempo fa Robert Solow, in un “bagliore da sociologia per amatori”. E, chissà come mai, si scopre che i cicli economici sono ancora importanti.
La mia personale sensazione è che la Teoria della Nuova Crescita non ebbe mai gli elementi indispensabili per trasformarsi in una storia di successo; una parte troppo grande di essa comportava il fare ipotesi su come cose non misurabili influenzavano altre cose non misurabili. Decollò, in parte perché il tema era talmente importante, e la gente voleva poter dire qualcosa a proposito; mentre la teoria dei cicli economici era allora, ed è oggi, un’area profondamente contrastata spaccata in due dalla politica, e la gente era ansiosa di parlare d’altro. In breve, si trattò di un ‘bolla’ intellettuale che alla fine si sgonfiò spontaneamente.
Ma resta impressionante, per chiunque rammenti l’eccitazione di quei tempi, come sia completamente svanita dal paesaggio dell’economia.