Blog di Krugman

La Dinamo e Big Data (18 agosto 2013)

 

August 18, 2013, 9:43 am

The Dynamo and Big Data

James Glanz relays skepticism about the economic impact of Big Data, with

some economists questioning whether Big Data will ever have the impact of the first Internet wave, let alone the industrial revolutions of past centuries.

OK, we’ve been here before; there was a lot of skepticism about the Internet too — and I was one of the skeptics. In fact, there was skepticism about information technology in general; Robert Solow quipped that “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics”. But here’s another instance where economic history proved very useful. Paul David famously pointed out (pdf) that much the same could have been said of electricity, for a long time; the big productivity payoffs to electrification didn’t come until after around 1914.

Why the delays? In the case of electricity, it was all about realizing how to take advantage of the technology, which meant reorganizing work. A steam-age factory was a multistory building with narrow aisles; that was to minimize power loss when you were driving machines via belts attached to overhead shafts driven by a steam engine in the basement. The price of this arrangement was cramped working spaces and great difficulty in moving stuff around. Simply replacing the shafts and belts with electric motors didn’t do much; to get the big payoff you had to realize that having each machine powered by its own electric motor let you shift to a one-story, spread-out layout with wide aisles and easy materials handling.

David predicted that IT would similarly deliver its big payoff with a lag, as people figured out how to use it; and so it proved (pdf).

There’s every reason to believe that the story for Big Data will be similar. Now, that doesn’t mean that it will be the equivalent of electricity or the steam engine; the Internet wasn’t. But it could, nonetheless, be pretty Big. Have patience.

 

La Dinamo e Big Data [1]

 

James Glanz diffonde scetticismo sull’impatto economico di Big Data, scrivendo:

“alcuni economisti si chiedono se Big Data avrà mai l’impatto della prima ondata di Internet, per non dire delle rivoluzioni industriali dei tempi passati.”

In effetti è un punto che abbiamo già toccato: c’è stato grande scetticismo anche per Internet – e io ero uno degli scettici. Di fatto, c’era scetticismo in generale sulla tecnologia dell’informazione; Robert Solow scherzava dicendo: “Potete vedere l’era del computer dappertutto, meno che sulle statistiche della produttività”. Ma c’è un altro caso nel quale la storia economica si mostra molto utile. In un modo che restò famoso Paul David (disponibile in pdf) mise in evidenza che in gran parte le stesse cose erano state dette sull’elettricità, per lungo tempo; i grandi guadagni dalla elettrificazione non vennero sino a dopo il 1914.

Perché i ritardi? Nel caso dell’elettricità dipese tutto dal comprendere come trarre vantaggio dalla tecnologia, il che comportava di riorganizzare il lavoro. Un’impresa dell’epoca del vapore era una costruzione a più piani con stretti corridoi; il che dipendeva dalla minimizzazione della perdita di energia, dato che si facevano andare le macchine tramite cinghie attaccate ad assi sopraelevati guidati dall’energia del vapore al basamento. Il prezzo di questa soluzione furono spazi di lavoro ristretti e grandi difficoltà nel muovere gli oggetti dintorno. Semplicemente rimpiazzare gli assi e le cinghie con motori elettrici non risolveva granché; per ottenere il massimo risultato finale si doveva comprendere che, essendo ogni macchina alimentata dal suo proprio motore elettrico, potevate trasformare l’ambiente in un edificio ad un piano, una struttura distesa con ampi corridoi ed una facile movimentazione dei materiali.

David aveva previsto che la tecnologia dell’informazione avrebbe ottenuto il suo risultato finale con un ritardo, appena la gente si fosse fatta un’idea di come utilizzarla, e così è stato.

Ci sono tutte le ragioni per credere che la storia di Big Data sarà simile. Ora, questo non significa che sarà l’equivalente dell’elettricità o del motore a vapore; Internet non lo è stata. Ma potrebbe, nondimeno, essere abbastanza importante. Abbiate pazienza.


 

 


[1] Il concetto di Big data è proprio del campo dei database: il termine indica grandi aggregazioni di dati, la cui mole richiede strumenti differenti da quelli tradizionali, in tutte le fasi del processo (dalla gestione, alla curation, passando per condivisione, analisi e visualizzazione). Il progressivo aumento della dimensione dei data set è legato alla necessità di analisi su un unico insieme di dati correlati rispetto a quelle che si potrebbero ottenere analizzando piccole serie con la stessa quantità totale di dati ottenendo informazioni che non si sarebbero potute ottenere sulle piccole serie.Big Data rappresenta anche l’interrelazione di dati provenienti potenzialmente da fonti eterogenee, quindi non soltanto i dati strutturati (come i database) ma anche non strutturati: immagini, email, dati GPS, informazioni prese dai social network. L’insieme di tutti questi dati genera quel che si chiama Big Data consentendo a chi li analizza di ottenere una plusvalenza legata ad analisi più complete che sfiorano anche gli “umori” dei mercati e del commercio e quindi del Trend complessivo della Società e del fiume di informazioni che viaggiano e transitano attraverso internet.

Con i Big Data si arriva a parlare di Zetta-Byte ovvero di una mole di Byte dell’ordine di 10^21 e quindi di miliardi di Terabyte (già 10^12) (Wikipedia).

Una immagine derivata da tecniche di Big Data.

w 65

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nostalgia di inflazione (17 agosto 2013)

agosto 17, 2013

 

August 17, 2013, 3:51 pm

Inflation Nostalgia

David Glasner continues his meditation on Milton Friedman and all that, this time focusing on Friedman’s insight that nominal interest rates aren’t necessarily a good guide to the stance of monetary policy — basically because even a high nominal rate may amount to very easy money if expected inflation is even higher.

I have two reactions. The first is, well, duh. There may have been a time — maybe 50-plus years ago — when Keynesians were confused about this point. But no modern user of IS-LM forgets that the diagram must be drawn for a given expected rate of inflation, and that large changes in expected inflation can make a big difference. In fact, that’s precisely the insight that lies behind calls for a higher inflation target, so as to avoid hitting the zero lower bound!

But my other reaction is, what are these inflation expectations you speak of? Oh, wait, I seem to remember — didn’t they come on 5 1/4 inch floppy disks?

The fact is that we’ve had low, fairly stable inflation expectations for a generation now:

w 64

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I know that there are economists for whom it’s always 1978, who are constantly fearing — or, I suspect, in their innermost selves, hoping — for a return of the good old days when inflation was a constant threat. But in the world we’ve been living in this past quarter-century or more, inflation expectations haven’t moved much, and nominal interest rates have, in practice, been a pretty good guide to the stance of monetary policy.

 

Nostalgia di inflazione

 

David Glasner procede con I suoi pensieri su Milton Friedman e tutto il resto, questa volta concentrandosi sulla intuizione di Friedman per la quale i tassi di interesse non sono necessariamente una buona guida per una posizione di politica monetaria – fondamentalmente perché anche un tasso nominale molto alto può fare il paio con una moneta molto facile  se l’inflazione attesa è persino più alta.

Ho due reazioni. La prima è: ebbene, che c’è di strano? Ci può essere stato un tempo – forse 50 anni e più orsono – nel quale i keynesiani erano confusi su questo punto. Ma nessun moderno utilizzatore del modello IS-LM dimentica che il diagramma deve essere tracciato per un dato tasso di inflazione attesa, e che grandi cambiamenti nella inflazione attesa possono fare grandi differenze. In sostanza, è quella l’intuizione che sta dietro la richiesta di un obbiettivo di inflazione più elevato, in modo da evitare di scontrarsi con il limite inferiore di zero!

Ma la mia altra reazione è: quali sono queste aspettative di inflazione di cui si parla? Oh, aspettate, non venivano da floppy disk da cinque pollici e un quarto?

Il fatto è che abbiamo avuto da una generazione ad oggi aspettative di inflazione abbastanza stabili:

w 64

 

So che ci sono economisti per i quali è come se si fosse sempre nel 1978, che sono costantemente spaventati – o, sospetto, nel loro più recondito intimo, speranzosi – di un ritorno dei bei tempi andati, nei quali l’inflazione era una minaccia costante. Ma nel mondo nel quale stiamo vivendo in questo quarto di secolo o più, le aspettative di inflazione non si sono mosse molto ed i tassi nominali di interesse, in pratica, sono stati una guida abbastanza buona per prendere posizioni di politica monetaria.

Per la maggior parte, i conservatori non sono liberali radicali (17 agosto 2013)

agosto 17, 2013

 

August 17, 2013, 3:34 pm

Conservatives Are (Mostly) Not Libertarians

Mike Konczal has an interesting and useful essay over at Wonkblog on what conservatives don’t get — namely, their failure to appreciate that some problems are inherently public in nature, and require public solutions. Somewhat unusually, however, I think that Mike has somewhat missed the point, and engaged in a bit of wishful thinking. His essay is an excellent critique of libertarians; but most conservatives are not libertarians, even if they like to use libertarian rhetoric now and then.

Think about it: the modern Republican party may be the party of deregulation and low taxes, but it’s also the party of social illiberalism. Someone like Rick Santorum firmly believes that the government has no right to tell business owners what they can do in the workplace, but has every right to tell ordinary citizens what they can do in the bedroom. William Buckley’s God and Man at Yale was in large part a diatribe against the notion that colleges were teaching students about unemployment and how to fight it; but what Buckley wanted was, in effect, for those colleges to get back to their proper role, which was religious indoctrination. In its heyday National Review was a staunch supporter of free markets; but it was also a staunch supporter of Jim Crow — which wasn’t just about the right of white business owners to discriminate against blacks, it was about a system of laws designed to protect white privilege.

All of this makes no sense if you think of liberalism versus conservatism as a simple argument about the size and role of the state. But it makes perfect sense if you follow Corey Robin, who sees it as being all about the protection of traditional hierarchy:

For that is what conservatism is: a meditation on, and theoretical rendition of, the felt experience of having power, seeing it threatened, and trying to win it back.

Now, there are some real libertarians out there, particularly in the realm of economics bloggers, but they have no real power base. Even when politicians claim to be libertarian, there are telltale giveaways: the two R. Pauls, father and son, may be unusual in questioning the national security state, but they both have a remarkable tendency to cater to and/or employ white supremacists.

And even the hatred for Keynesian economics has less, I think, to do with the notion that unemployment isn’t a proper subject of policy than about the notion of shifting power over the economy’s destiny away from big business and toward elected officials. That was Kalecki’s point — and I learned about that from Mike Konczal!

So there is an interesting debate to be had about the proper extent of the public sphere. But that isn’t the debate driving our politics; our left-right split isn’t nearly that idealistic, or innocent.

 

Per la maggior parte, I conservatori non sono liberali radicali [1]

 

Mike Konczal scrive un articolo interessante ed utile su Wonkblog su quello che i conservatori non capiscono – in particolare, la loro incapacità di considerare che alcuni problemi sono intrinsecamente pubblici nella realtà, e richiedono soluzioni pubbliche. Abbastanza inusualmente, tuttavia, penso che a Mike in qualche modo sfugga il punto, e si faccia un po’ prendere da una specie di ‘pensiero desiderante’. Il suo saggio è una eccellente critica del radicalismo liberale; ma gran parte dei conservatori non sono libertarian, anche se adoperano quella retorica di quando in quando.

Si pensi a questo: il moderno Partito Repubblicano può essere il partito della deregolamentazione e della basse tasse, ma è anche il partito della mancanza di libertà sociale. Uno come Rick Santorum crede fermamente che il Governo non abbia alcun diritto di dire ai proprietari di impresa che cosa debbono fare nel loro luogo di lavoro, ma abbia tutto il diritto di dire ai cittadini ordinari cosa possono fare nella loro stanza da letto. Il libro “Dio e l’uomo a Yale” di William Buckley era in larga parte una diatriba contro l’idea che le università insegnassero agli studenti sul tema della disoccupazione e del come combatterla; ma quello che Buckley voleva, in effetti, era che quelle università tornassero al loro ruolo corretto, che era l’indottrinazione religiosa. La National Review nel suo pieno fulgore fu una devota sostenitrice dei liberi mercati; ma era anche una devota sostenitrice di Jim Crow – la qualcosa non riguardava soltanto il diritto  degli impresari bianchi di discriminare i neri, ma un sistema di leggi rivolto a proteggere i privilegi dei bianchi [2].

Tutto questo è privo di senso si si pensa al liberalismo nel confronto con il conservatorismo come a un semplice tema di dimensioni e di ruolo degli Stati. Ma ha perfettamente senso se si segue Corey Robin, che lo vede interamente relativo alla difesa della tradizionale gerarchia:

“Perché quello è il conservatorismo: una meditazione, una rappresentazione dell’esperienza provata dell’avere potere, del vederlo minacciato e del cercare di riconquistarlo.”

Ora, in giro ci sono alcuni liberali radicali, specialmente nel settore dei bloggers dell’economia, ma essi non hanno una reale base di potere. Persino quando gli uomini politici sostengono di essere liberali radicali, ci sono annunci rivelatori: può essere poco frequente che i due Rand Paul, padre e figlio, avanzino dubbi sulle condizioni della sicurezza nazionale, ma hanno entrambi una considerevole tendenza a provvedere ai bisogni e ad impiegare i fautori della supremazia bianca [3].

Ed anche l’odio per l’economia keynesiana ha meno a che fare, penso, con il concetto che la disoccupazione non sia un tema corretto per la politica, che con il concetto dell’allontanare i poteri sui destini dell’economia  dalla grande impresa ai rappresentanti eletti. Quello era il punto di vista di Kalecki – ed io l’ho appreso proprio da Mike Konczal!

C’è dunque un dibattito interessante da sviluppare sulla dimensione appropriata della sfera pubblica. Ma non è quello il dibattito che orienta la nostra politica; la nostra frattura tra destra e sinistra non è così idealistica o innocente.


[1] Mi rendo conto che tradurre “libertarian” con “liberali radicali” è un po’ pesante. Ma la questione è complicata. Non si può rendere con “libertari”, che in italiano ha tutt’altro significato, normalmente del tutto estraneo alla ideologia del liberalismo. Ma se si traduce con “liberisti” non si migliora granché, perché si perde una certa parte del radicalismo che è implicito nel termine “libertarian” (l’attitudine di un “liberista” – per la accezione che ne abbiamo noi – è letteralmente ad un laissez faire integrale ed anche piuttosto bigotto; il radicalismo di un “libertarian”, magari ideologicamente, allude ad una parte della tradizione individualistica ed anche ribellistica americana …). Ora, come si constata dal post, l’intenzione di Krugman è quella di riconoscere una qualche teorica dignità a quella tradizione radicale, che non ha più niente a che fare con i conservatori americani odierni. Per attenuare la pesantezza, utilizzo dopo un po’ il termine inglese.

[2] Per comprendere la frase bisogna considerare che Jim Crow è un personaggio di una nota coon song nata fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, negli spettacoli dei menestrelli che si svolgevano negli Stati Uniti: Jump Jim Crow. In essa veniva descritto un tale nero di nome Jim Crow, sciancato, che lavorava in una scuderia. La sua figura fu presa ad emblema della discriminazione razziale: durante la lotta all’emancipazione si diceva spesso che il nero doveva “lottare contro Jim Crow”.

w 62

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma le leggi Jim Crow furono delle leggi locali e dei singoli stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1876 e il 1965. Di fatto servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di “separati ma uguali” per i neri americani e per i membri di altri gruppi razziali diversi dai bianchi. Alcuni esempi di leggi Jim Crow furono la separazione nelle scuole pubbliche, nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto e la differenziazione dei bagni e dei ristoranti tra quelli per bianchi e quelli per neri. Anche all’interno dell’esercito venne applicata la segregazione razziale. Le leggi Jim Crow erano distinte dai Codici neri del periodo 180066 che a loro volta avevano ridotto i diritti e le libertà civili degli afroamericani. La segregazione razziale organizzata dagli stati nelle scuole fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1954, con la sentenza Brown v. Board of Education. In generale, le leggi Jim Crow rimaste furono abrogate dal Civil Rights Act del 1964[1] e dal Voting Rights Act del 1965 (notizie da Wikipedia).

[3] Nel mese passato i giornali ed i blogs hanno diffusamente parlato di casi del genere riguardanti i due repubblicani.

Stagflazione, stagnazione ed asimmetria intellettuale (16 agosto 2013)

agosto 16, 2013

 

August 16, 2013, 2:27 pm

Stagflation, Stagnation, and Intellectual Asymmetry

Brad DeLong weighs in on the Friedman legacy, and notes that there have been two big successful sort of meta-predictions in macroeconomics over the past half-century. In the late 60s, Friedman and Phelps warned of the risk of stagflation, and were vindicated in the 1970s. In the late 1990s, some economists warned of the risk of Depression-type liquidity traps, and were vindicated in the Naughties. The first success led to Friedmam’s promotion to demigod status; the second success has not produced any comparable elevation.

But never mind the personal aspect. More important, stagflation led to a major rethinking of macroeconomics, all across the board; even staunch Keynesians conceded that Friedman/Phelps had been right (indeed, they may have conceded too much), and the vertical long-run Phillips curve became part of every textbook. But the Great Recession and the long stagnation that followed (and continues) have brought no such concessions from the anti-Keynesians. As I often note on this blog, even the most spectacular failures of prediction (and successes for the other side) have been met with nothing but excuses (It’s Obamacare! It’s interest on reserves! It’s uncertainty!)

What accounts for this asymmetry? Partly, I think, there’s an economics-specific aspect: anti-Keynesian macroeconomics is a comfortable position, because it involves a return to notions of perfect markets and perfectly rational individuals; so the anti-Keynesians find it hard to leave that comfort zone, while even Keynesians sort of liked introducing a bit more rationality into their models.

But it’s also the usual left-right asymmetry. Keynesianism isn’t exactly left-wing, but monetarism was clearly conservative, and equilibrium business cycle theory even more so. And left and right in modern America are not mirror images. The right is purist, uncompromising, and ultimately not interested in contrary evidence; the left is much more open and empirical. And the economics profession, it turns out, is not that different from the political sphere.

This is an uncomfortable truth to acknowledge. Many economists would like to believe that we’re having a reasonable, civilized discussion, rather than dealing with denialism and bad faith. But you go to economic debates with the profession you have, not the profession you want.

 

Stagflazione, stagnazione ed asimmetria intellettuale

 

Brad DeLong interviene sul tema dell’eredità di Friedman [1], ed osserva che in un certo senso ci sono state due grandi meta-previsioni economiche nell’ultimo mezzo secolo. Sulla fine degli anni ’60, Friedman e Phelps misero in guardia sul rischio di stagflazione [2], ed ebbero una conferma nel corso degli anni 70. Sulla fine degli anni ’90, qualche economista mise in guardia dal rischio di una Depressione del genere di una trappola di liquidità, ed ottenne una conferma con i primi anni 2000.  Il primo successo comportò la promozione di Friedman allo status di semi Dio; il secondo non ha prodotto alcun effetto  paragonabile.

Ma lasciamo perdere l’aspetto personale. La cosa più importante è che la stagflazione portò ad un ripensamento importante della macroeconomia, su tutto lo scenario; persino i più convinti keynesiani ammisero che Friedman e Phelps avevano avuto ragione  (in effetti, forse concessero un po’ troppo), e la curva verticale di lungo periodo di Phillips divenne parte di ogni libro di testo. Ma la Grande Recessione e la lunga stagnazione che è seguita (e continua) non hanno portato a concessioni simili da parte degli antikeynesiani. Come spesso noto su questo blog, persino le più spettacolari previsioni fallite (e di contro i successi dalla parte opposta) non hanno corrisposto a niente se non a scusanti (è stata la riforma sanitaria di Obama! Sono gli interessi sulle riserve! E’ l’incertezza!)

Cosa rappresenta questa asimmetria? In parte, penso, c’è un aspetto specificamente economico: la macroeconomia anti-keynesiana si trova in una posizione confortevole, giacché include il ritorno ai concetti di mercati perfetti e di individui perfettamente razionali; dunque per gli antikeynesiani è arduo abbandonare quella zona tranquilla, mentre persino i keynesiani in qualche modo hanno introdotto con compiacimento un po’ più di razionalità entro i propri modelli.

Ma si tratta anche della solita asimmetria tra sinistra e destra. Il Keynesismo non è esattamente la sinistra, ma il monetarismo fu chiaramente conservatore, e la teoria del ciclo economico in equilibrio ancora di più. E destra e sinistra nell’America odierna non sono immagini speculari. La destra è dogmatica, contraria ai compromessi e di recente non influenzabile dalle prove opposte; la sinistra è molto più aperta ed empirica. E si scopre che la disciplina economica non è diversa dalla sfera della politica.

E’ un verità spiacevole da ammettere. A molti economisti piacerebbe credere che stiamo partecipando ad un dibattito ragionevole e civile, piuttosto che facendo i conti con il negazionismo e la mala fede. Ma si partecipa ai dibattiti economici con la disciplina che esiste, non con quella che si vorrebbe.


 


[1] Forse qualcuno potrebbe essere interessato al breve post di Brad DeLong qua citato:

 

Previsioni corrette e la condizione degli economisti Brad DeLong (16 agosto 2013)

Paul Krugman ha certamente ragione nel dire che la storia ha giudicato, e che il giudizio della storia è in modo così completo a favore di James Tobin rispetto a Milton Friedman che non è rimasto neppure una traccia nel punto dove un tempo si ergeva l’approccio di Friedman ad una teoria monetaria della determinazione del reddito nominale.

E Robert Waldmann indica, ripetutamente e correttamente, che non c’è niente di teoricamente rilevante in Friedman (1967) che non fosse (già) in Samuelson e Solow (1960) – che il fatto che l’inflazione al di sopra delle aspettative possa sbloccare inflazione futura non fu un tema ideato da Friedman (o da Phelps), ed anche che né Friedman (né Phelps) stavano pensando che l’elevata disoccupazione potesse sbloccare  il NAIRU (il livello al quale il tasso di disoccupazione non provoca ancora una accelerazione dell’inflazione, ndT).

E Paul Krugman mette in evidenza che la Curva di lungo periodo di Phillips utilizzata da Friedman (e da Phelps)  è semplicemente sbagliata a bassi tassi di inflazione, e non così utile come strumento fondamentale.

C’è tuttavia una grande cosa nella quale Friedman ebbe ragione: alzarsi in piedi e dire: “In questo momento le aspettative di inflazione stanno perdendo la loro stabilità. Il meccanismo di accelerazione è destinato a dominare le dinamiche del ciclo economico sia nel breve che nel  medio termine.”  Questo fu giusto. E fu una fonte potente di manna da cielo.

In modo simile, o forse no, mi sentirei di sostenere che c’è una grande cosa (assieme ad un ampio numero di medie e piccole cose) nella quale Paul Krugman ha avuto ragione: la sua previsione nel passato 1998 sul “Ritorno dell’economia della depressione”. Eppure lo Zio Paul non si è guadagnato una quantità di manna  paragonabile a quella che lo Zio Milton si guadagnò negli anni Sessanta ….

 

[2] In economia, con il termine stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti – su un determinato mercato – sia un aumento generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell’economia in termini reali (stagnazione economica). La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente.

Banche e base monetaria (per esperti) (16 agosto 2013)

agosto 16, 2013

 

August 16, 2013, 11:39 am

Banks and the Monetary Base (Wonkish)

Cullen Roche is unhappy with the way I treat monetary expansion in my old Japan paper (pdf); or actually he’s unhappy with the way I talk about it. I’m actually kind of reluctant to even get into this, because any discussion of these issue brings out the people who believe that they have discovered the hidden secrets of the monetary universe, somehow missed by generations of economists. But here goes anyway.

When I think about the role of banks in the economy, I generally rely on two models, which are both partial pictures but add up to a reasonable overall approach. One is Diamond-Dybvig (pdf), which portrays banks as providers of liquidity services, and also shows how bank runs can happen. The other is Tobin-Brainard (pdf), which portrays the financial system in terms of a portfolio equilibrium, in which each sector — households, banks, firms, etc. — choose the mixes of assets and liabilities they want to hold, and asset prices adjust to make these choices consistent.

What I did in that old Brookings Paper was a quick-and-dirty merger of these two approaches, in which I got the monetary base into the story in the form of required reserves held by banks. That was a strategic simplification, and an unrealistic one — almost all of the monetary base is actually held in the form of currency, not bank reserves. But it was obvious to me that it didn’t really make any difference for the question at hand.

And how did I know that? Basically from Tobin-Brainard, who showed that whether banks hold monetary base in the form of reserves makes no fundamental difference to the monetary mechanism, as long as somebody wants to hold base money — and the public does, in the form of currency.

Actually, Tobin-Brainard is to many of the controversies that swirl around banks and money as IS-LM is to controversies about interest-rate determination. When we ask, “Are interest rates determined by the supply and demand of loanable funds, or are they determined by the tradeoff between liquidity and return?”, the correct answer is “Yes” — it’s a simultaneous system.

Similarly, if we ask, “Is the volume of bank lending determined by the amount the public chooses to deposit in banks, or is the amount deposited in banks determined by the amount banks choose to lend?”, the answer is once again “Yes”; financial prices adjust to make those choices consistent.

Now, think about what happens when the Fed makes an open-market purchase of securities from banks. This unbalances the banks’ portfolio — they’re holding fewer securities and more reserve — and they will proceed to try to rebalance, buying more securities, and in the process will induce the public to hold both more currency and more deposits. That’s all that I mean when I say that the banks lend out the newly created reserves; you may consider this shorthand way of describing the process misleading, but I at least am not confused about the nature of the adjustment.

And the crucial thing is that there are no puzzles or misunderstandings here. Tobin and Brainard got it all straight half a century ago, and anyone who thinks that there’s a big flaw in their reasoning is almost surely just getting caught up in his own word games.

 

Banche e base monetaria (per esperti)

 

Cullen Roche è scontento per il modo in cui tratto l’espansione monetaria nel mio vecchio saggio sul Giappone (disponibile in pdf [1]); o, per la verità, è scontento del modo in cui ne parlo. Effettivamente sono un po’ riluttante a farmi prendere da questo tema, perché ogni dibattito su di esso porta allo scoperto persone che pensano di aver scoperto i segreti nascosti dell’universo monetario, in qualche modo sfuggiti a generazioni di economisti. Ma in questo caso andiamo avanti comunque.

Quando io penso al ruolo delle banche nell’economia, in generale mi baso su due modelli, che sono entrambi rappresentazioni parziali ma portano ad un ragionevole approccio complessivo. Uno è quello di Diamond-Dybvig (disponibile in pdf) che rappresenta le banche come fornitrici di servizi di liquidità, e mostra anche come possono avvenire gli ‘assalti agli sportelli’. L’altro è quello di Tobin-Brainard (disponibile in pdf), che ritrae il sistema bancario in termini di equilibrio di portafoglio,  per il quale ogni settore – famiglie, banche, imprese etc. – sceglie le combinazioni di assets e di passività che vuol detenere, ed i prezzi degli assets operano nel senso di rendere queste scelte coerenti.

Quello che io feci in quel vecchio Brookings Paper fu una sbrigativa fusione di quei due approcci, nella quale inserivo la base monetaria nella mia narrativa nella forma delle riserve richieste detenute dalle banche. Si trattava di una semplificazione strategica, peraltro non realistica – quasi tutta la base monetaria è effettivamente detenuta nella forma di contante, non di riserve bancarie. Ma per me era chiaro che questo non faceva alcuna differenza per il tema che stavo trattando.

E come sapevo ciò? Fondamentalmente in conseguenza del lavoro di Tobin-Brainard, che mostrava che se le banche detengono la base monetaria nella forma di riserve, questo non induce alcuna differenza di fondo nel meccanismo monetario, fin quando c’è qualcuno che vuole possedere la basa monetaria – che è quello che vuole il pubblico, nella forma di contante.

In verità, il lavoro di Tobin-Brainard riguarda molte delle controversie che ruotano attorno alla banche ed alla moneta così come il modello IS-LM è relativo alle controversie sulla determinazione dei tassi di interesse. Quando ci chiediamo: “I tassi di interesse sono determinati dall’offerta e dalla domanda di fondi concedibili in prestito, oppure sono determinati dallo scambio tra liquidità e rendimenti?”, la risposta corretta è “Sì” – si tratta di un sistema simultaneo.

In modo simile, se ci chiediamo: “Il volume dei prestiti bancari è determinato dall’ammontare che il pubblico sceglie di depositare nelle banche, oppure è la somma depositata nelle banche che è determinata dall’ammontare che le banche scelgono di dare a prestito?”, la risposta è ancora una volta “Sì”; i prezzi finanziari operano nel senso di rendere queste scelte coerenti.

Ora, si pensi a quello che accade quando la Fed fa un acquisto di titoli a mercato aperto [2] dalle banche. Esso provoca un squilibrio nei portafogli delle banche – detengono meno titoli e più riserve – ed esse procederanno a cercare un riequilibrio, acquistando più titoli, e in quel processo il pubblico sarà indotto a detenere sia più denaro corrente che più depositi. Questo è tutto quello che io intendo quando dico che le banche danno in prestito all’esterno le riserve di nuova creazione; potete considerare questo modo semplificato di descrivere il processo come fuorviante, ma io almeno non sono confuso sulla natura dell’adattamento.

E l’aspetto cruciale è che non ci sono, in questo caso, misteri o fraintendimenti. Tobin e Brainard compresero tutto correttamente mezzo secolo fa, e tutti quelli che pensano che ci fosse un grande difetto nel loro ragionamento quasi sicuramente sono semplicemente catturati dai loro stessi giochi di parole.


[1] E’ il saggio più volte citato che nella prima parte fornisce tra l’altro il contesto per una comprensione della cosiddetta ‘trappola di liquidità’, e nella seconda approfondisce  il caso giapponese. Interessante tra l’altro che uno dei due ‘discussori’ del saggio fosse Kenneth Rogoff. Il saggio è definito Brookings Paper perché venne presentato nell’ambito di una iniziativa di quell’Istituto.

[2] Il termine “open market” (“”mercato aperto”) in termini generali esprime una situazione prossima ad una condizione di commercio libero. In termini più specificamente tecnici si riferisce alla stessa cosa, quando si tratti di compra vendita di titoli da parte delle banche.

L’Irlanda è la storia di successo del futuro, e sarà sempre così (16 agosto 2013)

agosto 16, 2013

 

 

 

August 16, 2013, 11:11 am

Ireland Is The Success Story Of The Future, And Always Will Be

Via Mark Thoma, Kenneth Thomas analyzes the latest attempt to claim that Ireland is a success story — is this the third or the fourth time around? — and concludes that the modest fall in unemployment is all about emigration. Actually, we can reach the same conclusion by going straight to employment data:

w 61

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

This is not exactly a policy triumph.

The one sense in which Ireland has made some progress is that it has somewhat reassured bond investors that its population will continue to sullenly acquiesce in austerity; as a result, Irish 10-year rates, while still at a large premium, are now 60-80 basis points below those of Italy and Spain.

But the repeated invocation of Ireland as a role model has gotten to be a sick joke.

 

L’Irlanda è la storia di successo del futuro,  e sarà sempre così

 

Tramite Mark Thoma, apprendiamo che Kenneth Thomas analizza l’ultimo tentativo di sostenere che l’Irlanda sia una storia di successo – più o meno è la terza o la quarta volta? – e conclude che la modesta caduta nella disoccupazione è tutta derivante dall’emigrazione. Effettivamente, possiamo giungere alla stessa conclusione andando direttamente ai dati sull’occupazione:

w 61

 

 

 

 

 

 

 

 

Eurostat

Non è esattamente un trionfo politico.

L’unico senso nel quale l’Irlanda ha fatto qualche progresso è che essa ha in qualche modo assicurato gli investitori sui bonds che la sua popolazione continuerà ad adeguarsi imbronciata all’austerità; come risultato, i tassi delle obbligazioni decennali irlandesi, se ancora hanno un considerevole sovrapprezzo, sono ora a 60-80 punti base sotto quelli dell’Italia e della Spagna.

Ma la continua invocazione di un ruolo guida dell’Irlanda è diventato un disco rotto.

La leggera dabbenaggine delle basse aspettative europee (15 agosto 2013)

agosto 15, 2013

 

August 15, 2013, 5:26 pm

The Soft Bigotry of Low European Expectations

It really is kind of pathetic to see European leaders claiming vindication after one whole quarter of positive growth, at the thrilling annual rate of 1.2 percent. Just to say the obvious: when you’ve suffered a huge hit to output and employment, you’re supposed to have a long period of fast growth to make up the lost ground. Otherwise you’re making the definition of success way too easy.

To illustrate my point, here’s a comparison I’ve been looking at. It’s between Latvia — which is the closest thing we have to an actual austerity success story, since it has been growing fast, even if it’s still far below pre-crisis levels — and another country, which isn’t Latvia. Here’s the chart:

w 60

 

 

 

 

 

 

 

 

Two big success stories, right? But who is Not Latvia?

Well, it’s the United States from 1929 to 1935; data from the Millennial Edition of Historical Statistics of the United States (Latvia data from the IMF). Strange to say, most of us think America was still living through the Great Depression in 1935.

I know, I know, the Latvians claim that the previous boom was unsustainable, so that they’re actually close to full employment now. We’ll talk all that over at the next Brookings Panel. I just want to make the point that a bit of growth after a deep slump — and for Europe as a whole it’s really only a bit of growth — is not exactly definitive.

 

La leggera  dabbenaggine delle basse aspettative europee

 

E’ realmente un po’ patetico vedere i dirigenti europei che pretendono di essere risarciti dopo un intero trimestre di crescita positiva, al tasso sensazionale annuo dell’1,2 per cento. Per dire soltanto quello che è evidente: quando avete patito un gran colpo nella produzione e nella occupazione, si suppone che abbiate un lungo periodo di rapida crescita per rifarvi del terreno perduto. Altrimenti vi fabbricate una definizione della strada per il successo troppo facile.

Per illustrare il mio punto di vista, ecco un confronto che ho osservato. Riguarda la Lettonia – che è la cosa più simile che abbiamo ad una storia di successo di una effettiva austerità, dal momento che è cresciuta rapidamente, anche se è ancora assai al di sotto dei livelli pre-crisi – ed un altro paese, che non è la Lettonia. Ecco il diagramma:

w 60

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due grandi storie di successo, dunque? Ma quale è il paese che abbiamo definito Non Lettonia?

Ebbene, sono gli Stati Uniti dal 1929 al 1935; i dati provengono dalla Millennial Edition delle Statistiche Storiche degli Stati Uniti (quelli della Lettonia dal FMI). Strano i dirsi, la gran parte di noi pensa che l’America stesse ancora vivendo in mezzo alla Grande Depressione nel 1935.

So bene che i lettoni sostengono che il precedente boom fosse insostenibile, che dunque adesso sono effettivamente vicini alla piena occupazione. Parleremo di tutto ciò al prossimo Brookings Panel [1]. Io voglio soltanto avanzare l’argomento che un po’ di crescita dopo una crisi profonda – e per l’Europa nel suo complesso si tratta davvero di un po’ di crescita – non è propriamente niente di definitivo.


[1] Convegno organizzato dal Brookings Institute.

Il buon web (15 agosto 2013)

agosto 15, 2013

 

 

August 15, 2013, 10:16 am

The Good Web

Jonathan Chait mocks Robert Samuelson for his column lamenting the rise of the Internet. I don’t especially want to pile on; but this does give an occasion to say something about my own perceptions of how the web has changed journalism.

Now, obviously the Internet is causing big commercial problems for news organizations. And that is a real problem; someone does have to do basic reporting, which means that someone has to pay the bills. But that will have to be a subject for another post, one of these days.

What I want to talk about instead is the effect of the Internet on the quality of reporting, which I believe has been overwhelmingly positive.

Pundits like Samuelson seem to long for an age when wise men, from their platforms at major news orgs, sifted truth from falsehood and delivered sound judgment to the masses. The trouble is, that age never existed. I read a lot of economics reporting in the pre-Internet era, and by and large it was terrible. In part this was because the reporters and pundits often knew little economics — in fact, there was a sort of bias against having reporters with too much expertise, on the grounds that they wouldn’t be able to relate to the readership. In part it was because there wasn’t an effective mechanism for checking facts and interpretations: a reporter or pundit could say something that everyone who knew anything about the subject realized was all wrong, but those with better knowledge had no way of getting that knowledge out in real time.

Let me give an example. A couple of years ago Samuelson dismissed the relevance of Keynes, because conditions have changed; these days we have lots of debt, whereas

When Keynes wrote “The General Theory of Employment, Interest and Money” in the mid-1930s, governments in most wealthy nations were relatively small and their debts modest.

My guess is that in the pre-Internet era, an assertion like that would simply have sat there; economists would complain about it in the coffee room, but that would be it. In this case, however, the whole econoblogosphere immediately pounced, pointing out that Britain’s debt/GDP ratio in the 30s was actually much higher than it is today. (Times policy, by the way, would have called for a formal correction. Oh well.)

The point is that real journalists, as opposed to the idealized picture of the way things used to be, benefit from the ability of knowledgeable non-journalists to get their knowledge out there, fast.

It’s true that there’s a lot of misinformation out there on the web; but is it any worse than the misinformation people used to get from other sources? I don’t think so.

There’s also another, subtler positive effect of the Internet: newspapers now have a much better idea of what their readers actually care about. In the not-so-good old days, my sense is that management believed that the things that interested Beltway insiders were also the things that interested their wider readership; reporters and pundits who cultivated contacts and breathlessly reported the latest twists and turns in the Senator Bomfog scandal were considered the stars. But now we have real metrics. Most-emailed and most-viewed lists are highly imperfect, and you certainly wouldn’t want to let them dictate the whole direction of the paper. Otherwise the New York Times would be entirely devoted to articles about food and how to use animal training techniques on your husband. But the availability of these metrics has shaken up the insularity of the industry, and that’s all to the good.

Finally, let me just say that leaving the news organizations to one side, the truth is that we’re living in a golden age of economic discourse. Yes, there’s a lot of really bad stuff out there, some of it from people with big reputations — but then the loose relationship between reputations and the quality of analysis is part of what we’re learning. And the amount of good stuff — stuff delivered in real time, on blogs open to anyone who wants to read rather than in the pages of economics journals with a few thousand readers at most — is amazing. When it comes to useful economic analysis, these are the good old days.

 

Il buon web

 

Jonathan Chait prende in giro Robert Samuelson per il suo articolo nel quale si lamenta della crescita di Internet. Non ho un bisogno particolare di intervenire, ma questo mi dà una occasione per dire qualcosa sulle mie impressioni di come il web abbia cambiato il giornalismo.

Ora, è evidente che Internet stia provocando grandi problemi per le organizzazioni dei quotidiani. E quello è un problema reale; qualcuno deve proprio fare i resoconti di base, il che significa che qualcuno deve pagare il conto. Ma questo sarà oggetto di un nuovo post, uno di questi giorni.

Quello di cui voglio parlare è invece l’effetto di Internet sulla qualità dei servizi, che io credo sia stato completamente positivo.

Commentatori come Samuelson sembrano avere nostalgia per un’epoca nella quale gli uomini saggi, dalle loro piattaforme presso le associazioni dei quotidiani, passavano al setaccio le cose vere dalle cose false e trasmettevano alle masse giudizi corretti. Il guaio è che quell’epoca non è mai esistita. Leggevo molti resoconti economici nel periodo precedente ad Internet e in linea di massima erano cose tremende. In parte questo dipendeva dal fatto che i giornalisti ed i commentatori conoscevano poca economia – di fatto, c’era una specie di pregiudizio ad avere giornalisti con troppa esperienza, sulla base del fatto che non sarebbero stati capaci di relazionarsi con i lettori. In parte dipendeva dal fatto che non c’era un vero meccanismo per controllare fatti ed interpretazioni: un cronista o un commentatore potevano dire qualcosa che tutti coloro che erano un po’ al corrente della materia sapevano essere del tutto sbagliato, ma coloro i quali avevano una conoscenza migliore non avevano modo di far conoscere quelle cose in tempo reale.

Fatemi fare un esempio. Un paio di anni fa Samuelson liquidò l’importanza di Keynes, perché le condizioni erano cambiate; di questi tempi noi abbiamo una grande quantità di debiti, mentre

“Quando Keynes scriveva ‘La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta’ sulla metà degli anni Trenta, le funzioni di governo in gran parte delle nazioni ricche erano relativamente piccole ed i debiti erano modesti.”

La mia impressione è che nell’epoca pre-Internet un concetto come quello semplicemente si sarebbe fermato a quel punto; gli economisti si sarebbero lamentati nelle caffetterie, ma esso sarebbe rimasto tale. In questo caso, tuttavia, l’intera econoblogsfera si è scagliata contro, mettendo in evidenza che il rapporto debito/PIL dell’Inghilterra negli anni Trenta era effettivamente molto più alto di oggi (la politica del Times, per inciso, avrebbe dovuto chiedere una formale rettifica. Lasciamo perdere.)

Il punto è che i giornalisti veri, diversamente dalla rappresentazione teorica del modo in cui le cose di solito vanno, traggono vantaggio dalla capacità dei non giornalisti bene informati di far conoscere velocemente quello che sanno all’esterno.

E’ vero che c’è una gran quantità di disinformazione in giro sulla rete; ma è peggiore della disinformazione che le persone erano solite ricevere da altre fonti? Io non lo credo.

C’è anche un altro, più sottile, effetto di Internet: i giornali ora hanno un’idea migliore di quello di cui i loro lettori effettivamente si preoccupano. La mia impressione è che nei non esaltanti tempi andati, le direzioni dei media credevano che le cose che interessavano Washington erano le stesse che interessavano il più largo pubblico; i cronisti e commentatori che coltivavano i contatti e fornivano resoconti mozzafiato  sugli ultimi colpi di scena e novità nello scandalo del Senatore Bomfog [1], erano considerati come delle stelle.  Ma ora abbiamo strumenti di misura effettivi. Gran parte degli elenchi che vengono spediti e visionati via internet sono assai imperfetti, e certamente non vorreste che essi dettassero il complessivo orientamento del giornale. Altrimenti il New York Times sarebbe dedito agli articoli sul cibo e su come utilizzare le tecniche di addestramento degli animali con vostro marito.   Ma la disponibilità di questi strumenti di misura ha dato una scossa all’isolamento dell’industria, e questo è un gran bene.

Infine, lasciatemi dire che lasciando da una parte le agenzie giornalistiche, la verità è che stiamo vivendo un momento magico del dibattito economico. E’ vero, c’è un bel po’ di roba davvero pessima in circolazione, una parte di essa da persone altamente considerate – ma d’altro canto la relazione che si è persa tra quelle reputazioni e la qualità delle analisi fa parte di quello che stiamo imparando. E la somma delle cose buone – materiali trasmessi in tempo reale, su blogs aperti a tutti coloro che vogliono leggere, piuttosto che su pagine di giornali con al massimo poche migliaia di lettori – è impressionante. Quando si viene a ragionare di utilità dell’analisi economica, sono questi i bei tempi andati.



[1] Da quello che ho capito l’espressione “Bomfog” venne usata dai cronisti per riportare una espressione abituale del Governatore di New York Nelson Rockefeller, che nei suoi comizi utilizzava costantemente l’espressione “the brotherhood of man, under the fatherhood of God” (“l’amicizia dell’uomo, sotto la paternità di Dio”). Ridotta ad un acronimo, la frase diventava Bomfog. A prescindere da cosa volesse dire, il termine finì con l’indicare verosimilmente il Senatore Rockefeller. Nelson Rockefeller fu anche Vicepresidente degli Stati Uniti dal 1974 al 1976 (venne a sorpresa nominato dal Presidente Gerald Ford, che successe a Nixon dopo le sue dimissioni).

w 59

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il test della Grande Recessione (14 agosto 2013)

agosto 14, 2013

 

August 14, 2013, 4:15 pm

The Great Recession Test

A postscript to my Meltzer post: I actually feel some human sympathy for Meltzer (though not too much). After all, put yourself in his position: you’ve literally spent decades promoting yourself as an authority on monetary policy, co-founding the Shadow Open Market Committee to critique the Fed. And now comes your moment of glory. This time the Fed has really done it, adopting a policy you consider wildly irresponsible and inflationary. So you deliver your dire warnings of the doom ahead, and wait for vindication.

And it turns out that you were wrong. Worse, it looks as if your whole approach to monetary economics has been wrong all along.

We all make mistakes, but some mistakes are more consequential than others. And the Great Recession and aftermath have been a sort of acid test for economists, a chance to find out whether they actually know something or whether they’ve been deluding people (themselves included) about their alleged expertise.

Again, we all make mistakes. However, my own biggest mistakes have come either on issues where my models offered no guidance, like the economic impact of information technology, or in cases where I disregarded my models and went with my gut, like my overestimation of the impact of the Bush deficit. In the Great Recession and aftermath, however, I went with the models – and they worked! So I can rest easy (aside from the catastrophic state of the world); it looks as if I haven’t been faking it, after all.

Others have not fared so well. I like to think that if I had been proved as utterly wrong as Meltzer, or the 23 economists who signed the famous letter warning of disaster from quantitative easing, I’d have had the strength of character to admit it and question my premises. But I don’t know for sure, and with some luck I’ll never find out.

 

Il test della Grande Recessione

 

Un postscriptum al mio post su Meltzer: provo in effetti una qualche umana simpatia per Meltzer (sebbene non esagerata). Dopo tutto, mettetevi nella sua situazione: avete letteralmente speso decenni per promuovervi come una autorità in materia di politica monetaria, cofondando la Commissione Ombra a Mercati Aperti per criticare la Fed. Ed ora viene il vostro momento di gloria. Questa volta la Fed l’ha fatto per davvero, ha adottato una politica che voi considerate  enormemente irresponsabile ed inflazionistica. Dunque, tirate fuori  i vostri presagi di sventura ed aspettate un risarcimento.

E si scopre che avevate torto. Peggio, sembra che il vostro intero approccio alla economia monetaria sia stato sbagliato sin dall’inizio.

Facciamo tutti errori, ma alcuni errori sono più importanti di altri. E la Grande Recessione e le sue conseguenze sono state una specie di prova del nove per gli economisti, una occasione per scoprire se effettivamente conoscevano qualcosa o se stavano illudendo la gente (e loro stessi) a proposito della loro pretesa competenza.

Lo ripeto, facciamo tutti errori. Tuttavia, i miei errori più grandi vengono tutti su tematiche per le quali i miei modelli non offrono alcun indirizzo, come l’impatto sull’economia della tecnologia dell’informazione, oppure nei casi nei quali ho trascurato i miei modelli ed ho proceduto istintivamente, come per le mie stime esagerate dell’impatto del deficit di Bush. Nella Grande Recessione e nelle sue conseguenze, tuttavia, ho proceduto con i miei modelli – ed hanno funzionato! Dunque, posso dormire sereno (a parte la condizione catastrofica del mondo); dopo tutto è apparso chiaro che non stavo imbrogliando.

Altri non si sono comportati altrettanto bene. Mi piace pensare che se mi fossi mostrato in errore nello stesso modo di Meltzer, o degli altri 23 economisti che firmarono la famosa lettera sul disastro derivante dalla ‘facilitazione quantitativa’ [1], avrei avuto la forza di carattere di ammetterlo e di porre in discussione le mie premesse. Ma non posso darlo per certo, e con un po’ di fortuna non lo scoprirò mai.


 


[1] L’elenco è interessante. Tra le persone più note anche all’estero: John Cogan, Niall Ferguson, John Taylor. La lettera aperta a Bernanke si pronunciava chiaramente sia contro politiche ulteriori di “stimulus” che contro le politiche di facilitazione monetaria che la Fed avrebbe perseguito. La data era il 15 novembre del 2010. Come si nota, non solo docenti di economia chiaramente schierati con la scuola conservatrice (come Cogan o Taylor) e in passato collaboratori di Amministrazioni repubblicane, ma anche intellettuali come Ferguson – in Europa famosi più che altro per le loro pubblicazioni storiche – si impegnarono per politiche economiche molto esplicite. Retrospettivamente, per inciso, questo aiuta a comprendere anche perché in altre occasioni Krugman  ha avuto polemiche aspre con Ferguson.

Cliff Asness AQR; Michael J. Boskin Stanford University; Richard X. Bove; Charles W. Calomiris Columbia University; Jim Chanos Kynikos Associates; John F. Cogan Stanford University;  Niall Ferguson Harvard University; Nicole Gelinas Manhattan Institute & e21; James Grant Grant’s Interest Rate Observer; Kevin A. Hassett American Enterprise Institute; Roger Hertog The Hertog Foundation; Gregory Hess Claremont McKenna College; Douglas Holtz-Eakin Former Director, Congressional Budget Office; Seth Klarman Baupost Group; William Kristol Editor, The Weekly Standard; David Malpass GroPac; Ronald I. McKinnon Stanford University; Dan Senor Council on Foreign Relations; Amity Shlaes Council on Foreign Relations; Paul E. Singer Elliott Associates; John B. Taylor Stanford University; Peter J. Wallison American Enterprise Institute; Geoffrey Wood Cass Business School at City University London

Falchi, colombe e struzzi (14 agosto 2013)

agosto 14, 2013

 

August 14, 2013, 4:10 pm

Hawks, Doves, and Ostriches

More than four years ago Allan Meltzer issued a dire prediction: the Fed’s policy of expanding its balance sheet will lead to high inflation. We’re still waiting for that to happen. So it might behoove Meltzer to admit that he was wrong and ask where his analysis went wrong.

OK, you can stop laughing now. What Meltzer does, instead, is complain that the Fed has undermined his perfectly fine analysis. You see, those dastardly officials are paying interest on reserves – a hefty 0.25 percent – and this has led to something totally unexpected:

The US Federal Reserve Board has pumped out trillions of dollars of reserves, but never have so many reserves produced so little monetary growth. Neither the hawks nor the doves (nor anyone else) expected that.

So the money supply broadly defined hasn’t taken off – a complete surprise! – and hence no inflation.

Except that this isn’t at all a surprise; it’s exactly what those of us who had analyzed the liquidity trap predicted would happen when you expand the monetary base in an economy at the zero lower bound. From my 1998 paper on the subject (pdf):

The point is important and bears repeating: under liquidity trap conditions, the normal expectation is that an increase in high-powered money will have little effect on broad aggregates …

Nor was it just theory. Meltzer claims support from the lessons of history; but the relevant history is of other liquidity-trap episodes. Consider, in particular, the case of Japan’s quantitative easing in the early 2000s:

w 56

 

 

 

 

 

 

 

Bank of JapanJapanese monetary data (100 million yen)

Unlike the Fed, the Bank of Japan didn’t pay interest on reserves. Nonetheless, a huge increase in the monetary base just sat there, mostly in the form of increased bank reserves – the same as what happened in America later.

We might add further that if the Fed can neutralize the supposedly awesome inflationary effect of quantitative easing by paying ¼ percent interest on reserves, it should be very easy to contain the inflationary threat in future.

Anyway, I do get kind of annoyed here. Some of us came into the global crisis with a well-worked-out theory of monetary and fiscal policy in a liquidity trap; the predictions of that theory have been completely consistent with actual experience. People like Meltzer chose to disregard all of that, insisting that terrible inflation (and high interest rates) were just around the corner. You almost never get that clear a test of rival economic views, and the results should be considered decisive.

Instead, the usual suspects stick their heads in the sand and pretend that they have been right all along.

PS: A further count against the claim that interest on excess reserves explains everything is the fact that public holdings of currency have also surged, even though the Fed isn’t paying interest on dead presidents:

w 57

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ratio of currency in circulation to GDP

 

Again, this is exactly what liquidity-trap models, like my 1998 paper, predicted.

 

Falchi, colombe e struzzi

 

Più di quattro anni fa Allan Meltzer fece una previsione tremenda: la politica di espansione dei suoi equilibri finanziari da parte della Fed avrebbe portato ad una alta inflazione. Stiamo ancora aspettando che accada. Dunque, potrebbe essere doveroso per Meltzer ammettere di aver sbagliato e chiedersi in cosa la sua analisi fosse difettosa.

Va bene, potete pure smettere di ridere. Quello che invece Meltzer fa è che si lamenta con la Fed che avrebbe messo a repentaglio la sua analisi perfettamente corretta. Vedete, quegli ignobili dirigenti stanno pagando interessi sulle riserve – un robusto 0,25 per cento – e questo ha portato a qualcosa di completamente inatteso:

“Il Consiglio della Federal Reserve ha tirato fuori migliaia di miliardi di dollari dalle riserve, ma mai tante riserve hanno prodotto una crescita monetaria così piccola. Né i falchi né le colombe (né nessun altro) se l’aspettavano.”

Dunque, l’offerta di moneta  in senso generale non è decollata – una completa sorpresa! – e di conseguenza niente inflazione.

Sennonché  non si trattava affatto di una sorpresa: si tratta esattamente di quanto avevano previsto sarebbe accaduto quelli di noi che avevano analizzato la trappola di liquidità, nel momento in cui  si espande la base monetaria in un’economia che si trova al limite inferiore di zero [1]. Dal mio saggio del 1998 su tale tema (disponibile in pdf):

“Il punto è importante ed è il caso di ripeterlo: in condizioni di trappola di liquidità, la  aspettativa normale è che un incremento di moneta in circolazione [2] avrà un effetto modesto sugli aggregati generali …”

Né si trattava soltanto di teoria. Meltzer rivendica il sostegno delle lezioni della storia; ma la storia che conta è quella di altri episodi di trappole di liquidità. Si consideri in particolare il caso della ‘facilitazione quantitativa’ [3] del Giappone agli inizi degli anni 2000:

w 56

 

 

 

 

 

 

 

Dati monetari giapponesi della Banca del Giappone (100 milioni di yen)

Diversamente dalla Fed, la Banca del Giappone non pagava interessi sulle riserve. Nondimeno, una largo incremento della base monetaria si è fermato a quel punto, in gran parte nella forma di aumentate riserve bancarie – la stessa cosa che è accaduta successivamente in America.

Potremmo ulteriormente aggiungere che se la Fed può neutralizzare il presunto terribile effetto inflazionistico della ‘facilitazione quantitativa’ pagando un interesse pari ad un quarto di punto percentuale sulle riserve, dovrebbe essere molto facile contenere la minaccia inflazionistica nel futuro.

In ogni modo, a questo punto provo una sorta di irritazione. Alcuni di noi si sono espressi sulla crisi globale sulla base di una teoria della politica monetaria e della finanza pubblica in una crisi di liquidità ben sperimentata; le previsioni di quella teoria sono state completamente coerenti con l’esperienza attuale. Persone come Meltzer hanno scelto di non curarsi di tutto questo, ribadendo che una inflazione tremenda (e tassi di interesse elevati) erano proprio dietro l’angolo. Non si danno quasi mai test di punti di vista economici in competizione così chiari, ed i risultati dovrebbero essere considerati decisivi.

Invece, i soliti noti ficcano le loro teste nella sabbia e fingono di aver avuto ragione sin dall’inizio.

Post Scriptum: un dato ulteriore contro la pretesa che l’interesse sulle riserve in eccesso spieghi ogni cosa è il fatto che anche il possesso di contante da parte della popolazione è cresciuto, anche se la Fed non sta pagando interessi sulle banconote con i Presidenti deceduti [4]:

w 57

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Percentuale del contante in circolazione in rapporto al PIL

Ancora, questo è esattamente quello che i modelli delle trappole di liquidità, come il mio studio del 1998, aveva previsto.


[1] Ovvero, con i tassi di interesse già prossimi allo zero (vedi note sulla traduzione).

[2] Il termine “high-powered” riferito alla moneta (non alla ‘crescita’) non mi è chiaro: può significare ‘potente’ ed anche ‘dinamico’ …

[3] Vedi “quantitative easing” alle note sulla traduzione.

[4] Ovvero, sui dollari.

Un racconto di due paesi stagnanti (13 agosto 2013)

agosto 13, 2013

 

August 13, 2013, 11:26 am

A Tale of Two Flat Countries

Simon Wren-Lewis writes about the rise of extremist parties in the UK and the Netherlands. As he notes, in a way this shouldn’t be surprising. The Netherlands, in particular, has the kind of Grand Bargain the Washington Post editorial page dreams of — a government of national unity committed to fiscal austerity. It’s as if Harry Reid, John Boehner, and President Obama had all agreed to implement Simpson-Bowles, with some extra front-loaded cuts thrown into the bargain too. And here’s the thing: it’s not working. So what you have is a frustrated populace, finding no “respectable” politicians willing to challenge a failing orthodoxy:

So in the Netherlands and elsewhere in Europe, on the issue of the stupidity of pro-cyclical fiscal policy, it is only the views of politicians on the far-left or far-right that matches those of the majority of macroeconomists. Given the social, economic and political consequences of declining real wages and rising unemployment, which fiscal austerity only makes worse, this is both a very sad and rather dangerous state of affairs.

Indeed: the last time we saw something like this was in the 1930s, when all the great and good united in defense of the gold standard; that did not end well.

Also, Wren-Lewis alludes to the extraordinary limpness of Labour, which has been consistently, depressingly unwilling to challenge the basic premises of Cameron/Osborne.

But my thoughts ran down a different channel. Governance in the Netherlands since financial crisis struck has been everything the world’s Very Serious People could want: the whole political center committed to Doing The Right Thing, and in fact doing it very vigorously. Meanwhile, just to the south lies another country with famously dysfunctional politics — so bitterly divided that it’s as if its politicians are speaking different languages, because, well, they are. So how does performance in recent years compare? Glad you asked:

Public debt, % of GDP (end 2011):

Belgium: 97.8
Netherlands: 65.0

Change in structural balance, 2007-13:

Belgium: -1.6
Netherlands: -0.1

Change in unemployment rate, 2007-13:

Belgium: +0.5
Netherlands: +2.7

Long-term interest rate, July 2013:

Belgium: 2.54
Netherlands: 2.03

Yes, Belgium is paying slightly higher interest rates — but not by a whole lot since the ECB started doing its job as lender of last resort. And in general, it’s hard to escape the impression that Belgium has been better served by political paralysis than the Netherlands has by its unified, effective determination to do exactly the wrong thing.

 

Un racconto di due paesi stagnanti

 

Simon Wren-Lewis scrive sulla crescita dei partiti estremisti in Gran Bretagna ed in Olanda. Come egli nota, in qualche modo non dovrebbe essere sorprendente. L’Olanda, in particolare, ha quel genere di Grande Intesa che la pagina editoriale del Washington Post sogna – un Governo di unità nazionale votato alla austerità delle finanze pubbliche. E’ come se Harry Raid, John Boehner e il Presidente Obama si fossero messi tutti d’accordo per mettere in atto le scelte della commissione Simpson-Bowles, infilando in tale accordo anche alcuni tagli aggiuntivi nella fase iniziale. Ed il problema è lì: non sta funzionando. Di conseguenza il risultato è una popolazione frustrata, che non trova nessun uomo politico “rispettabile” che abbia la volontà di sfidare una ortodossia fallimentare:

“Dunque, in Olanda come dappertutto in Europa, sul tema della stupidità di una politica della finanza pubblica pro-ciclica, ci sono soltanto i punti di vista di uomini politici di estrema sinistra o di estrema destra che si confrontano con quelli della maggioranza degli economisti. Date le conseguenze sociali, economiche e politiche del declino dei salari reali e della disoccupazione crescente, questa è una situazione di fatto sia molto triste che piuttosto pericolosa.”

In effetti: l’ultima volta che vedemmo qualcosa del genere fu negli anni Trenta, quando tutte le Persone Molto Serie [1] si unirono in difesa del gold standard; la qualcosa non ebbe affatto un buon esito [2].

Inoltre, Wren-Lewis fa riferimento alla straordinaria remissività del Labour, che si è mostrato, costantemente ed in modo deprimente, indisponibile a lanciare una sfida alle premesse di fondo di Cameron-Osborne.

Ma i miei pensieri vanno ad un’altra rappresentazione. Dal momento in cui è esplosa la crisi, in Olanda, il Governo ha rappresentato tutto quello che le Persone Molto Serie di tutto il mondo vogliono: tutto il centro politico si è impegnato a Fare La Cosa Giusta, ed anche a farla con particolare vigore. Nel frattempo, proprio più a Sud, c’è un altro paese con una politica notoriamente  improduttiva – così aspramente diviso che è come se gli uomini politici stessero parlando due diverse lingue, giacché, in fondo, è proprio quello che fanno [3]. Dunque, cosa emerge da un confronto degli anni recenti? Mi fa piacere lo chiediate:

 

Debito pubblico come percentuale del PIL (fine 2011):

Belgio: 97,8

Olanda: 65,0

 

Modifiche nell’equilibrio strutturale, anni 2007.2013 [4]:

Belgio: – 1,6

Olanda: – 0,1

 

Modifiche nel tasso di disoccupazione, 2007-2013:

Belgio: + 0,5

Olanda: + 2,7

 

Tassi di interesse a lungo termine, luglio 2013:

Belgio: 2,54

Olanda: 2,03

 

Si, il Belgio sta pagando tassi di interesse leggermente più elevati – ma non così tanto dal momento il cui la BCE ha cominciato a fare il suo lavoro come prestatore di ultima istanza. E, in generale, è difficile sfuggire all’impressione che il Belgio abbia tratto maggiore giovamento dalla paralisi politica di quanto l’Olanda ne abbia tratto dalla sua unitaria, vigorosa determinazione a fare esattamente la cosa sbagliata.


[1] Il termine “Persone Molto Serie” – che come si sa è un frequente espressione ironica di Krugman – guarda caso si presta benissimo a tradurre “great and good” (che altrimenti potremmo tradurre con “gli stati maggiori”, “gli alti papaveri” etc.).

[2] La connessione è con un breve scritto di Alan de Bromhead, Barry Eichengreen, Kevin H O’Rourke del 27 febbraio 2012, nel quale si analizzano le vicende dell’estremismo politico di destra negli anni Trenta.

[3] Ovvero, parlano effettivamente lingue diverse.

Situato al confine tra l’Europa germanofona e l’area linguistica e culturale romanza, il Belgio è diviso in tre regioni. A settentrione le Fiandre la cui popolazione di lingua olandese comprende circa il 58% della popolazione totale e a sud la Vallonia, prevalentemente francofona con l’eccezione di una piccola comunità germanofona, e che costituisce il 32% della popolazione complessiva nazionale. Nel mezzo è situata la regione della città di Bruxelles, Bruxelles-Capitale che è ufficialmente bilingue, sebbene sia prevalentemente francofona, e nella quale risiede il 10% della popolazione. Inoltre ai confini con la Germania in Vallonia si trova la Comunità germanofona del Belgio di lingua tedesca che comprende i comuni ceduti dalla Germania al Belgio nel 1919 e annessi alla Germania nazista nel 19401945 (Wikipedia).

[4] Per equilibrio strutturale di bilancio si intende (fonte: FMI) “la posizione effettiva della finanza pubblica statale depurata delle stime delle conseguenze sul bilancio degli andamenti del ciclo economico”.

Vorrei aver detto così, versione Rand Paul (13 agosto 2013)

agosto 13, 2013

 

August 13, 2013, 8:24 am

Wish I’d Said That, Rand Paul Edition

Matt O’Brien follows up on Rand Paul and Milton Friedman, and finds the senator trying– in the face of all the facts — to claim that Friedman would have supported his monetary views. Again, Paul is a self-proclaimed Austrian, and Friedman was contemptuous of the Austrians:

I think the Austrian business-cycle theory has done the world a great deal of harm. If you go back to the 1930s, which is a key point, here you had the Austrians sitting in London, Hayek and Lionel Robbins, and saying you just have to let the bottom drop out of the world. You’ve just got to let it cure itself. You can’t do anything about it. You will only make it worse. You have Rothbard saying it was a great mistake not to let the whole banking system collapse. I think by encouraging that kind of do-nothing policy both in Britain and in the United States, they did harm.

So Paul’s denial is a sight to behold. The best point in Matt’s post, however, is his final line, which summarizes what I was trying to say in yesterday’s column perfectly:

The irony, of course, is that Milton Friedman was trying to save conservatism from people exactly like Rand Paul.

 

Vorrei aver detto così, versione Rand Paul

 

Matt O’Brien continua sul tema di Rand Paul e Milton Friedman, e scopre che il Senatore cerca – in barba a tutti i fatti – di sostenere che Friedman avrebbe appoggiato i suoi punti di vista monetari. Tra l’altro, Paul è un “austriaco” [1] dichiarato, e Friedman era sprezzante con gli “austriaci”:

“Io penso che la teoria del ciclo economico degli “austriaci” abbia fatto un bel po’ di danno al mondo. Se tornate agli Anni Trenta, che sono il punto chiave, avevate gli “austriaci”, Hayek e Lionel Robbins, sistemati  in buona posizione a Londra, che vi dicevano che si doveva soltanto lasciare che il mondo arrivasse alla saturazione. Si doveva solo fare in modo che si curasse da solo. Non ci si poteva far niente. Si sarebbe fatto solo peggio. C’era Rothbard [2]che diceva che era un grande errore non lasciare andare al collasso l’intero sistema bancario. Io penso che incoraggiando quella politica del non-far-niente sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, essi fecero un danno.”

Dunque, il negazionismo di Paul è davvero uno spettacolo. Tuttavia, il passaggio migliore nel post di Matt è la frase finale, che sintetizza perfettamente quello che io cercavo di dire nell’articolo di ieri [3]:

“L’ironia, come è evidente, è che Milton Friedman stava cercando di salvare il conservatorismo esattamente da individui come Rand Paul.”


[1] Vedi note sulla traduzione.

[2] Murray Newton Rothbard (New York, 2 marzo 1926New York, 7 gennaio 1995) è stato un economista, filosofo, politico, giornalista, storico e teorico giusnaturalista statunitense, nonché un autore prolifico e un vero e proprio emblema del libertarismo americano.

Filosofo principale dell’anarco-capitalismo, del quale è il teorico, partendo da concetti individualisti e basandosi su presupposti di tipo etico ha combattuto con teorie precise ed esemplificazioni ogni entità statale, proponendo a più riprese la nascita spontanea di ordini policentrici basati sulla proprietà privata e il libero mercato. Allievo di Ludwig von Mises, viene collocato tra i principali esponenti degli economisti neo-austriaci americani (Wikipedia).

w 52

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[3] New York Times 11 agosto: “Non c’è spazio per Milton Friedman”. E il senso del titolo del post è questo: Krugman vorrebbe aver trovato le parole di Matt O’Brien nel suo articolo sul giornale.

Quello che la gente (non) sa sul deficit (13 agosto 2013)

agosto 13, 2013

 

August 13, 2013, 8:06 am

What People (Don’t) Know About The Deficit

A little while back I expressed a desire to see a poll of voters asking whether they knew about the plunging federal budget deficit. Just as a reminder, here’s what the CBO numbers for the recent past and projections for the near future look like:

w 54

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Well, Hal Varian of Google got in touch with me, and said,”We can do that!” So he put together a Google Consumer Survey; it’s still ongoing — results here — but here’s what it looked like this morning:

w 55

 

 

 

 

 

 

I’m sure someone will quibble about the wording; and yes, the CBO numbers are as % of GDP rather than nominal values (but those would look the same). But I don’t think there’s any real question here: the public has no idea that the deficit has been falling like a stone. A solid majority of voters think it’s still going up, and hardly anyone knows that it’s going down.

 

Quello che la gente (non) sa sul deficit

 

Un po’ di tempo addietro espressi il desiderio di vedere un sondaggio tra gli elettori che chiedesse se essi fossero al corrente della caduta del deficit del bilancio federale. Solo per memoria, ecco cosa rappresentano i dati del Congressional Budget Office per il recente passato e le previsioni per il prossimo futuro:

w 54

 

Ebbene, Hal Varian di Google si è messo in contatto con me e ha detto “Possiamo farlo!”. Così si è messo assieme a Google Consumer Survey; la cosa è ancora in corso –  i risultati vengono pubblicati in questo link – ma questo è quanto appariva questa mattina [1]:

w 55

 

Sono sicuro che qualcuno vorrà cavillare sulle parole; ed è vero, i dati del CBO sono in percentuale sul PIL e non in valori nominali (ma apparirebbero nello stesso modo). Ma non penso che in questo caso ci sia alcun dubbio: l’opinione pubblica non ha alcuna idea che il debito pubblico stia cadendo come una pietra. Una solida maggioranza di elettori pensa che stia ancora salendo, ed a fatica c’è qualcuno che sa che sta scendendo.


[1] Una volta ingrandita la tabella, si legge che il 39,5 per cento pensa che il deficit sia grandemente cresciuto, che il 12,3 per cento pensa che sia un po’ cresciuto, che il 24,7 per cento pensa che sia rimasto lo stesso, che l’11,7 per cento pensa che sia un po’ diminuito e che solo l’11,8 per cento pensa che sia assai diminuito.

L’effetto Pigou (per super-doppi esperti speciali) (10 agosto 2013)

agosto 10, 2013

 

August 10, 2013, 4:01 pm

The Pigou Effect (Double-super-special-wonkish)

Via Brad DeLong, Robert Waldmann weighs in on the contributions or lack thereof of Milton Friedman, arguing that much of what he said was already there in Samuelson and Solow 1960. Actually, I’d give him more credit than that; the S-S paper — very unusually for both men, and for Bob Solow in particular — is one of those pieces sometimes described as “rich”, with many points alluded to but not many takeaway lines; to the extent that people did take something away, it was the crude notion of a usable downward-sloping Phillips curve, which turned out to be wrong.

Friedman — like Solow, in most of his work — was in the habit of writing crisp papers with very clear morals. So while you can,on a careful read, see from S-S why you should not in fact trust the Phillips curve to be stable, people didn’t actually get that until Friedman and Phelps laid out the point with stark clarity. Credit where credit is due.

Oh, and yes, I modeled my own intellectual style after Bob Solow’s (and Rudi Dornbusch, who was in the same tradition).

What caught me in the Waldmann piece, however, was the brief discussion of the Pigou effect, which supposedly refuted the notion of a liquidity trap. The what effect? Well, Pigou claimed that even if interest rates are up against the zero lower bound, falling prices will be expansionary, because the rising real value of the monetary base will make people wealthier. This is also often taken to mean that expansionary monetary policy also works, because it increases money holdings and thereby increases wealth and hence consumption.

And that’s where I came in (pdf). Looking at Japan in 1998, my gut reaction was similar to those of today’s market monetarists: I was sure that the Bank of Japan could reflate the economy if it were only willing to try. IS-LM said no, but I thought this had to be missing something, basically the Pigou effect: surely if the BoJ just printed enough money, it would burn a hole in peoples’ pockets, and reflation would follow.

But what I did was a little different from what the MMs have done this time around: I set out to prove my instincts right with a little model, a minimal thing that included actual intertemporal decisions instead of using the quasi-static IS-LM framework. [If you have no idea what I’m talking about, you have only yourself to blame — I warned you in the headline]. And to my considerable surprise, the model told me the opposite of my preconception: there was no Pigou effect. Consumption was tied down in the current period by the Euler equation, so if you couldn’t move the real interest rate, nothing happened.

One way to say this — which Waldmann sort of says — is that even a helicopter drop of money has no effect in a world of Ricardian equivalence, since you know that the government will eventually have to tax the windfall away. Of course, you can invoke various kinds of imperfection to soften this result, but in that case it depends very much who gets the windfall and who pays the taxes, and we’re basically talking about fiscal rather than monetary policy. And it remains true that monetary expansion carried out through open-market operations does nothing at all.

In the simple model, the only channel through which money can operate when you’re against the zero lower bound is by changing expectations of future inflation. And that’s hard to do.

The main point, however, is that we are a very long way from classic monetarism, of the form that says that the central bank can control broad monetary aggregates like M2 at will, and in turn that these broad monetary aggregates determine the course of the economy. That’s not at all true when you’re up against the zero lower bound — which is why Friedman’s analysis of the Great Depression was wrong, and one reason (the other is the madness of the GOP) why modern Friedmanites are a very small group with no real constituency.

 

L’effetto Pigou (per super-doppi esperti speciali)

 

Attraverso Brad DeLong apprendo che Robert Waldmann interviene sui contributi o sulla mancanza di contributi da parte di Milton Friedman, sostenendo che gran parte di quello che aveva detto si trovava già in Samuelson e Solow (1960). In effetti, avrei dovuto dargli un maggiore rilievo: il saggio di Samuelson e Solow – cosa molto inconsueta per entrambi, per Bob Solow in particolare – è uno di quelli che talvolta sono descritti come “sostanziosi”, con allusioni a vari aspetti ma con non molte affermazioni da utilizzare direttamente; nella misura in cui le persone ne deducevano qualcosa, si trattava in sostanza del concetto della utilizzabilità della curva di Phillips [1]con una inclinazione verso il basso, che si scopriva essere sbagliato.

Friedman – come Solow, in gran parte dei suoi lavori – aveva la consuetudine di scrivere saggi molto precisi con morali molto chiare. Dunque, se si può, ad una lettura scrupolosa, capire da Samuelson e Solow la ragione per la quale in sostanza non si deve ritenere che la curva di Phillips sia stabile, le persone in effetti non lo compresero finché Friedman e Phelps non lo esposero con totale chiarezza. Bisogna dare pane al pane e vino al vino.

Devo anche aggiungere che, sì, io formai il mio stile intellettuale sullo stile di Bob Solow (e di Rudi Dornbusch, che era nella stessa tradizione).

Quello che mi ha colpito, nel pezzo di Waldmann, è stata la breve disamina dell’ “effetto Pigou”, presentato come una confutazione del concetto di trappola di liquidità. ‘Effetto’ che cosa? Ebbene, Pigou sosteneva che persino se i tassi di interesse si scontravano contro il limite inferiore dello zero, i prezzi in calo sarebbero stati espansivi, perché il valore reale crescente della base monetaria avrebbe reso le persone più ricche. La quale cosa viene anche utilizzata per significare che anche una politica monetaria espansiva produce effetti, perché accresce il possesso di moneta e di conseguenza accresce la ricchezza e quindi i consumi.

Ed è su quel punto che io intervenni (disponibile in pdf). Osservando il Giappone nel 1998, la mia reazione istintiva fu simile a quei monetaristi di mercato odierni: io ero sicuro che la Banca del Giappone avrebbe potuto reflazionare l’economia se solo avesse voluto provare. Il modello IS-LM diceva il contrario, ma io pensavo che con quello si fosse trascurato qualcosa, in sostanza “l’effetto Pigou”: sicuramente, appena la Banca del Giappone avesse stampato sufficiente carta moneta, essa avrebbe messo la voglia di spendere e spandere nella testa della gente, e la reflazione sarebbe venuta di conseguenza.

Ma quello che io feci fu una cosa un po’ diversa da quello che hanno fatto in questa occasione i neomonetaristi: mi proposi di mettere alla prova le mie intuizioni con un piccolo modello, un oggetto minimale che invece di utilizzare lo schema quasi-statico IS-LM, includeva le effettive decisioni intertemporali (se non avete idea di cosa sto parlando, dovete solo incolpare voi stessi – io vi avevo avvertito dal titolo). E, con mia considerevole sorpresa, il modello mi raccontò l’opposto del mio pregiudizio: non c’era alcun effetto Pigou. Nel periodo corrente, i consumi venivano tenuti in basso per effetto della equazione Euler [2], cosicché se non potevate spostare i tassi di interesse reali, non accadeva niente.

Un modo per dire tutto questo – che in qualche modo Waldmann usa – è che in un mondo di ‘equivalenza ricardiana’ persino la distribuzione di denaro da un elicottero non ha affetto, sinché si sa che il Governo in effetti dovrà portar via quella manna dal cielo con le tasse. Naturalmente, si possono invocare imperfezioni di vario genere per attenuare questo risultato, ma in quel caso molto dipende da chi ottiene la manna e da chi paga le tasse, e qua fondamentalmente stiamo parlando di politica della finanza pubblica e non di politica monetaria. Quello che resta vero è che una espansione monetaria attuata attraverso operazioni a mercato-aperto non provoca nessun effetto.

In quel semplice modello, l’unico canale attraverso il quale la moneta può essere efficace quando ci si scontra con il limite inferiore dello zero, è modificando le aspettative della inflazione futura. Ed è una cosa difficile da ottenere.

Il punto principale, tuttavia, è che siamo molto lontani dal monetarismo classico, nella forma nella quale esso afferma che la banca centrale può controllare gli ampi aggregati monetari come lo M2 [3] a volontà, e a sua volta che questi ampi aggregati monetari determinano il corso dell’economia. Questo non è affatto vero quando si è di fronte al limite inferiore di zero, e quella è la ragione per la quale l’analisi di Friedman della Grande Depressione era sbagliata, ed una ragione (l’altra è la follia del Partito Repubblicano) per la quale i cultori moderni di Friedman sono un modestissimo gruppo senza alcun seguito reale.


[1] Vedi note sulla traduzione.

[2] Che sarebbe un complesso di equazioni che spiegano la dinamica dei liquidi che si suppongono privi di vischiosità.

[3] Ovvero, l’offerta di denaro risultante dalla somma della moneta corrente e di vari tipi di depositi.

Globalizzazione e keynesismo (10 agosto 2013)

agosto 10, 2013

 

August 10, 2013, 10:38 am

Globalization and Keynesianism

Looking at some of the comments on yesterday’s column, I see that a fair number of readers believe that Keynes is no longer valid because any increase in domestic demand will simply “leak” abroad. This is a widespread view, but it’s wrong. Globalization has been impressive, but it has not proceeded far enough to make Keynesian analysis irrelevant.

Actually, you should realize this point immediately just by thinking about the Great Recession itself. If domestic spending all goes on stuff made in China, the one-two punch of plunging home construction and falling consumer spending should have done all its damage abroad, not here in America. Obviously that didn’t happen.

But we can also look at the issue directly. The fact is that despite rising trade, a large majority of workers in America still produce goods and services that can’t be traded. My favorite estimates here come from Jensen and Kletzer (pdf), who use geographical variation across the United States to estimate which industries and occupations are tradable (Silicon Valley has a way disproportionate number of software engineers, demonstrating that those engineers are producing stuff that can be exported to other locations; retail employs about the same fraction of the labor force everywhere, demonstrating that it can’t be traded). Their results look like this:

w 53

 

Add to this the point that even tradable industries are strongly affected by domestic demand, and you find that globalization has not, in fact, changed the rules all that much.

I should also mention Nakamura and Steinsson (pdf), who use regional variation to estimate the size of the fiscal multiplier; they find that for U.S. regions, it comes in at around 1.5. And the U.S. economy as a whole is much less open than any one of its regions, so the overall multiplier should be larger. Again, globalization apparently doesn’t change the basics.

In the long run, Keynes is still alive.

 

Globalizzazione e keynesismo

 

Guardando alcuni commenti all’articolo di ieri, vedo che un certo numero di lettori crede che Keynes non sia più valido perché ogni incremento nella domanda interna finirebbe semplicemente per  fuoriuscire all’estero. E’ una opinione molto diffusa, ma è sbagliata. La globalizzazione è stata impressionante, ma non è arrivata al punto da rendere l’analisi keynesiana irrilevante.

In effetti, dovreste comprendere questo punto immediatamente solo pensando alla Grande Recessione stessa. Se tutta la spesa interna se ne andasse in roba costruita in Cina, il “colpo dell’uno-due” del crollo dell’edilizia e della caduta della spesa per consumi dovrebbe aver fatto tutto il suo danno all’estero e non in America. Naturalmente non è quello che è successo.

Ma possiamo anche osservare direttamente quel tema. Il fatto è che nonostante la crescita del commercio, una larga maggioranza di lavoratori americani ancora produce beni e servizi che non possono essere scambiati. In questo caso le mie stime favorite provengono da Jensen e Keltzer (disponibile in pdf), che utilizzano le variazioni geografiche attraverso gli Stati Uniti per stimare quali industrie e relativi posti di lavoro siano suscettibili di scambio (Silicon Valley ha un numero sproporzionato di ingegneri di software, a dimostrazione del fatto che quegli ingegneri stanno producendo cose che possono essere esportate in altre località; le occupazioni nel commercio al dettaglio sono dappertutto la stessa frazione della forza di lavoro, a dimostrazione del fatto che non sono scambiabili). I loro risultati appaiono come segue:

w 53

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]

Se si aggiunge a questo aspetto che anche le industrie suscettibili di scambi sono fortemente influenzate dalla domanda interna, si scopre che la globalizzazione non ha, di fatto, cambiato poi di tanto le regole.

Dovrei anche ricordare Nakamura e Steinsson (disponibile in pdf), che usano le variazioni regionali per stimare le dimensioni del moltiplicatore della spesa pubblica [2]; essi lo determinano per le singole regioni degli Stati Uniti, si avvicina a circa un fattore 1,5. E l’economia degli Stati Uniti è molto meno aperta di qualcuna delle sue regioni, cosicché il moltiplicatore complessivo dovrebbe essere più ampio. Ancora una volta, in apparenza la globalizzazione non ha cambiato le cose fondamentali.

Nel lungo periodo, Keynes è ancora vivo.


[1] La tabella mostra, se ben capisco, la percentuale degli occupati che si realizza nei vari settori suscettibili di scambi commerciali. Ma la fetta celeste è appannaggio dei settori non-suscettibili di scambi, che dunque sono il 60% degli occupati. Non mi è chiaro cosa siano i “non-scambiabili”, considerato che tra gli “scambiabili” ci sono pure la pubblica amministrazione e l’istruzione (ma anche Krugman nota che in molti casi i settori “scambiabili” sono molto dipendenti dalla domanda interna ….)

[2] Vedi a “multiplier” sulle note della traduzione.

« Pagina precedentePagina successiva »

Archivio