August 8, 2013, 5:09 pm
David Glasner has been making a series of posts on the legacy of Milton Friedman, some of them in response to Scott Sumner; they’re interesting if you want to delve into the intellectual history. I’m not personally big on such things — in general, what people thought Keynes or Friedman meant ends up being more important than what they turn out, on close reading, to (maybe, possibly) actually have meant. For what it’s worth, I think Glasner makes a good case that Friedman was indeed more or less a Keynesian, or maybe Hicksian — certainly that was the message everyone took from his Monetary Framework, which was disappointingly conventional. And Friedman’s attempts to claim that Keynes added little that wasn’t already in a Chicago oral tradition don’t hold up well either.
But never mind. What I think is really interesting is the way Friedman has virtually vanished from policy discourse. Keynes is very much back, even if that fact drives some economists crazy; Hayek is back in some sense, even if one has the suspicion that many self-proclaimed Austrians bring little to the table but the notion that fiat money is the root of all evil — a deeply anti-Friedmanian position. But Friedman is pretty much absent.
This is hardly what you would have expected not that long ago, when Friedman’s reputation bestrode the economic world like a colossus, when Greg Mankiw declared Friedman, not Keynes, the greatest economist of the 20th century, when Ben Bernanke concluded a speech praising Friedman with the famous line,
Let me end my talk by abusing slightly my status as an official representative of the Federal Reserve. I would like to say to Milton and Anna: Regarding the Great Depression. You’re right, we did it. We’re very sorry. But thanks to you, we won’t do it again.
Best wishes for your next ninety years.
So what happened to Milton Friedman?
Part of the answer is that at this point both of Friedman’s key contributions to macroeconomics look hard to defend.
First, on monetary policy: Even if you give him a pass on the 3 percent growth in M2 thing, which was abandoned by almost everyone long ago, Friedman was still very much associated with the notion that the Fed can control the money supply, and controlling the money supply is all you need to stabilize the economy. In the wake of the 2008 crisis, this looks wrong from soup to nuts: the Fed can’t even control broad money, because it can add to bank reserves and they just sit there; and money in turn bears little relationship to GDP. And in retrospect the same was true in the 1930s, so that Friedman’s claim that the Fed could easily have prevented the Great Depression now looks highly dubious.
Second, on inflation and unemployment: Friedman’s success, with Phelps, in predicting stagflation was what really pushed his influence over the top; his notion of a natural rate of unemployment, of a vertical Phillips curve in the long run, became part of every textbook exposition. But it’s now very clear that at low rates of inflation the Phillips curve isn’t vertical at all, that there’s an underlying downward nominal rigidity to wages and perhaps many prices too that makes the natural rate hypothesis a very bad guide under depression conditions.
So Friedman’s economic analysis has taken a serious hit. But that’s not the whole story behind his disappearance; after all, all those economists who have been predicting runaway inflation still have a constituency after being wrong year after year.
Friedman’s larger problem, I’d argue, is that he was, when all is said and done, a man trying to straddle two competing world views — and our political environment no longer has room for that kind of straddle.
Think of it this way: Friedman was an avid free-market advocate, who insisted that the market, left to itself, could solve almost any problem. Yet he was also a macroeconomic realist, who recognized that the market definitely did not solve the problem of recessions and depressions. So he tried to wall off macroeconomics from everything else, and make it as inoffensive to laissez-faire sensibilities as possible. Yes, he in effect admitted, we do need stabilization policy — but we can minimize the government’s role by relying only on monetary policy, none of that nasty fiscal stuff, and then not even allowing the monetary authority any discretion.
At a fundamental level, however, this was an inconsistent position: if markets can go so wrong that they cause Great Depressions, how can you be a free-market true believer on everything except macro? And as American conservatism moved ever further right, it had no room for any kind of interventionism, not even the sterilized, clean-room interventionism of Friedman’s monetarism.
So Friedman has vanished from the policy scene — so much so that I suspect that a few decades from now, historians of economic thought will regard him as little more than an extended footnote.
Milton Friedman, non identificato [1]
David Glasner viene scrivendo una serie di posts sull’eredità di Milton Friedman, alcuni dei quali in risposta a Scott Sumner; sono interessanti se si vuole approfondire la storia intellettuale. Non sono personalmente versato per cose del genere – in generale, quello che le persone hanno supposto che Keynes o Friedman intendessero dire finisce con l’essere più importante di quello che essi stessi ritennero, ad una lettura attenta, (forse, eventualmente) effettivamente di aver voluto dire. Per quello che conta, io penso che Glasner avanzi un argomento giusto affermando che Friedman fu in effetti più o meno un Keynesiano, o forse un hicksiano – certamente quello fu il messaggio che tutti trassero dal suo “Monetary Framework”, che era convenzionale in modo deludente. Ed i tentativi di Friedman di sostenere che Keynes avesse aggiunto poco a quanto non fosse già nella tradizione orale di Chicago non reggono granché anch’essi.
Ma non ha importanza. Quello che io penso sia realmente interessante è il modo in cui Friedman è virtualmente scomparso dal dibattito politico. Keynes è tornato alla grande, anche se la cosa fa diventare matti alcuni economisti; Hayek in qualche modo è riapparso, anche se si ha il sospetto che molti autoproclamantisi “austriaci” mettano ben poco sul tavolo, a parte il concetto secondo il quale la valuta legale [2] sia all’origine di tutti i mali – posizione questa profondamente antifriedmaniana. Ma Friedman è piuttosto assente.
Difficilmente ci si sarebbe aspettati una cosa del genere non molto tempo fa, quando la reputazione di Friedman stava a cavalcioni del mondo dell’economia come un colosso, quando Greg Mankiw dichiarava Friedman, non Keynes, il più grande economista del ventesimo secolo, quando Ben Bernanke concludeva un discorso di ammirazione su Friedman con la famosa frase:
“Lasciatemi concludere il mio discorso leggermente abusando della mia qualifica di rappresentante del gruppo di rigente della Federal Reserve. Vorrei dire a Milton ed ad Anna [3], a proposito delle Grande depressione. Avete ragione, fu una nostra responsabilità. Siamo molto spiacenti. Ma grazie a voi non lo faremo nuovamente.
I migliori auguri per i vostri prossimi novant’anni.”
Dunque, cosa è successo a Milton Friedman?
In parte la risposta è che a questo punti entrambi i contributi chiave di Friedman alla macroeconomia sembrano difficile da difendere.
Anzitutto, sulla politica monetaria: anche se gli si concede una promozione sulla faccenda della crescita del 3 per cento nell’aggregato monetario M2, cosa che è stata abbandonata da quasi tutti da molto tempo, Friedman era ancora del tutto dipendente dal concetto secondo il quale la Fed può controllare l’offerta monetaria, e controllare l’offerta di moneta e tutto quello di cui si ha bisogno per stabilizzare l’economia. Sulla scia della crisi del 2008, questo sembra sbagliato dalla A alla Z: la Fed non può neppure controllare in generale la moneta, giacché essa può aumentare le riserve bancarie e quelle semplicemente si fermano a quel punto: ed a sua volta la moneta ha una relazione modesta col PIL. E, retrospettivamente, la stessa cosa fu vera negli anni Trenta, cosicché la pretesa di Friedman secondo la quale la Fed avrebbe potuto facilmente prevenire la Grande Depressione oggi appare assai dubbia.
In secondo luogo, sulla inflazione e sulla disoccupazione: il successo di Friedman, assieme a Phelps, nel prevedere la ‘stagflazione’ fu quello che realmente spinse la sua influenza all’apice; il suo concetto di un tasso naturale di disoccupazione, di una curva di Phillips [4] verticale nel lungo periodo, divenne parte della esposizione di ogni libro di testo. Ma oggi è molto chiaro che a bassi tassi di inflazione la curva di Phillips non è affatto verticale, che c’è una intrinseca rigidità verso il basso per i salari nominali e forse anche per molti prezzi, che rendono l’ipotesi di un tasso naturale (di inflazione) una pessima guida in condizioni di depressione.
Dunque, l’analisi di Friedman ha preso un serio colpo. Ma questa non è l’intera storia che sta dietro la sua scomparsa; in fondo, tutti quegli economisti che hanno previsto una inflazione senza controllo continuano ad avere i loro consensi, dopo aver sbagliato un anno dietro l’altro.
Il più ampio problema di Friedman, vorrei sostenere, è che egli fu, una volta considerati tutti gli aspetti, un uomo che cercava di cavalcare due visioni del mondo in competizione – ed il nostro ambiente politico non ha più posto per quel genere di ambivalenza.
Si pensi a questo: Friedman fu un appassionato sostenitore del libero mercato, insistette che il mercato, lasciato a se stesso, poteva risolvere quasi ogni problema. Tuttavia fu anche un macroeconomista realista, che riconosceva che il mercato certamente non risolveva il problema delle recessioni e delle depressioni. Così egli cercò di isolare la macroeconomia da ogni altra cosa, e di renderla la meno inoffensiva possibile per le sensibilità del laissez-faire. In effetti sì, egli ammise che abbiamo proprio bisogno di politiche di stabilizzazione – ma possiamo minimizzare il ruolo del Governo affidandoci soltanto alla politica monetaria, nessun bisogno di quella cattiva politica della spesa pubblica, e quindi neppure di consentire una qualche discrezionalità alla autorità monetaria.
In ultima analisi, tuttavia, questa era una posizione incoerente. Se i mercati possono talmente sbagliare da provocare le Grandi Depressioni, come si può essere credenti del libero mercato per ogni aspetto, fatta eccezione per la macroeconomia? E dal momento che il conservatorismo americano si è spostato più a destra che mai, esso non ha più posto per un qualsiasi genere di interventismo, neppure per l’interventismo sterilizzato, da camera asettica, del monetarismo di Friedman.
Dunque Friedman è scomparso dalla scena politica – talmente scomparso che io ho il sospetto che tra qualche decennio gli storici dell’economia non gli concederanno più di una ampia nota a fondo pagina.
[1] Traduciamo in un gergo leggermente ‘anagrafico’, ma “unperson” ha anche un significato più forte, di persona alla quale non viene riconosciuto alcun diritto.
[2] Ovvero non basata sulla parità con l’oro.
[3] La moglie e coautrice del libro principale di Friedman, evidentemente presente all’occasione.
[4] Vedi note sulla traduzione.
agosto 8, 2013
August 8, 2013, 9:48 am
Don’t worry, this isn’t another entry in the Larry/Janet debate, where I’ve said my piece. Instead, it’s prompted by a nice but I think incomplete analysis by Matt O’Brien of the reasons Janet Yellen underestimated the damage a bursting housing bubble would do; analyzing that issue, it seems to me, is a good way to get at the broader question of why recovery has been so sluggish.
The starting point is that we had a monstrous housing bubble, and Janet Yellen recognized it in real time. Here’s housing prices deflated by consumer prices:
Real housing prices (Case-Shiller index)
It’s important to notice that just being willing to see the obvious here puts Janet Yellen way ahead of a lot of people who still presume to give us advice on the economy.
But Yellen initially thought the damage from a bursting bubble could be contained, although she was starting to worry by 2007. Why was she wrong? Matt emphasizes the financial crisis — the way the bursting bubble created a run on the shadow banking system. And that’s clearly key to understanding the severity of the 2007-9 slump. However, financial stress peaked in early 2009, then fell sharply:
Unfortunately, the economy didn’t come roaring back. Why?
The best explanation, I think, lies in the debt overhang. For the most part, even those who correctly diagnosed a housing bubble failed to notice or at least to acknowledge the importance of the sharp rise in household debt that accompanied the bubble:
Ratio of household debt to personal income
And I would argue that this debt overhang has held back spending even though financial markets are operating more or less normally again.
Finally, nobody really anticipated the disastrous response of policy, above all the squeeze on public spending at a time when we needed more government spending to sustain the economy until private balance sheets were repaired. Here’s total (all levels) government spending deflated by the implicit GDP deflator (an overall price index), comparing the last recession and aftermath with the Bush years; if spending had grown this time the way it did in the past, unemployment would probably be close to 6 percent:
In short, getting the bubble right, while no small thing, wasn’t enough; Yellen (and many other people, myself included) underestimated the fragility of the financial system, but also the importance of household debt, and, above all, the foolishness of policymakers.
Quello che ha sbagliato Janet Yellen – e con lei tutti gli altri
Non vi preoccupate, questo post non è un’altra uscita sul dibattito Larry /Janet [1], dove ho detto la mia. Invece, è stato indotto da una bella ma penso incompleta analisi di Matt O’Brien sulle ragioni per le quali Janet Yellen sottostimò il danno che lo scoppio della bolla immobiliare avrebbe prodotto; analizzare quel tema, mi sembra, è un buon modo per arrivare alla più generale questione della ragione per la quale la ripresa è stata così fiacca.
Il punto di partenza è che abbiamo avuto una mostruosa bolla immobiliare, e Janet Yellen lo riconobbe in tempo reale. Ecco i prezzi delle abitazioni deflazionati dagli andamenti dei prezzi al consumo:
E’ importante notare che, se solo si ha la volontà di vedere le cose evidenti, questo mette Janet Yellen molto oltre una quantità di persone che ancora suppongono di poterci dare consigli sull’economia.
Ma inizialmente la Yellen pensò che il danno derivante dallo scoppio della bolla immobiliare avrebbe potuto essere contenuto, sebbene ella cominciasse ad essere preoccupata sin dal 2007. Perché fece quello sbaglio? Matt mette l’accento sulla crisi finanziaria – il modo in cui lo scoppio della bolla creò una falla [2] nel sistema bancario ombra. E quella chiaramente è la chiave per comprendere la severità della crisi nel 2007-2009. Tuttavia, lo stress finanziario ebbe il suo culmine agli inizi del 2009, poi diminuì rapidamente:
Sfortunatamente, l’economia non venne dietro con la stessa baldanza. Perché?
La migliore spiegazione, penso, stia nell’eccesso di debito. Per la gran parte, persino coloro che avevano diagnosticato correttamente la bolla immobiliare non seppero indicare o almeno riconoscere l’importanza del brusco aumento del debito delle famiglie che aveva accompagnato la bolla:
Percentuale del debito delle famiglie sul reddito delle persone.
Ed io sono propenso a ritenere che questo eccesso di debito abbia frenato la spesa anche se i mercati finanziari stanno di nuovo operando più o meno normalmente.
Infine, nessuno aveva previsto la risposta disastrosa della politica, soprattutto la stretta sulla spesa pubblica in un periodo nel quale avevamo bisogno di maggiore spesa dai governi per sostenere l’economia, finché gli equilibri contabili del settore privato non fossero riparati. Ecco la spesa dei governi (a tutti i livelli [3]) deflazionata del deflatore implicito del PIL (un indice dei prezzi complessivo), confrontando l’ultima recessione e le sue conseguenze con gli anni di Bush; se la spesa questa volta fosse cresciuta come nel passato, la disoccupazione sarebbe probabilmente attorno al 6 per cento:
In sintesi, comprendere correttamente la bolla, per quanto non fosse una piccola cosa, non fu sufficiente; la Yellen (e molte altre persone, incluso il sottoscritto) sottostimarono la fragilità del sistema finanziario, ma anche l’importanza del debito delle famiglie, e soprattutto la stupidità degli uomini politici.
[1] Larry e il nome di Summers, uno dei principali candidati alla Presidenza della Fed, e Janet è il nome della altra candidata.
[2] “Run” si dice anche per una ‘smagliatura’ nelle calze.
[3] Ovvero, del Governo Federale, degli Stati e delle comunità locali.
agosto 6, 2013
August 6, 2013, 10:42 am
One of the remarkable things about the ongoing economic crisis is the endless search for explanations of something that’s actually quite simple — the sluggish pace of recovery. You have a large overhang of private debt; you have a still-depressed housing sector; and you have contractionary fiscal policy. Add to this the well-established fact that recovery tends to be slow after recessions caused not by tight money but by private-sector overreach, and there’s just no mystery that needs explaining.
Yet we’ve seen an endless series of analyses declaring that there is indeed a deep mystery, and it must be Obama’s Fault. Probably the most influential of these analyses was the claim that Obama was creating “uncertainty”, and this was holding everything back.
Larry Mishel did a thorough debunking of this meme almost two years ago. And sure enough, the index of uncertainty that everyone was pointing to has plunged, with no visible boost to the economy.
Will anyone who bought into this story engage in some serious self-analysis? Why am I even asking?
Un altro pessimo racconto morde la polvere
Uno degli aspetti rimarchevoli della perdurante crisi economica è la ricerca infinita di spiegazioni per qualcosa che effettivamente è abbastanza semplice – il ritmo fiacco della ripresa. C’è un largo eccesso di debito privato, c’è un settore delle costruzioni ancora depresso, e c’è una politica della finanza pubblica restrittiva. Si aggiunga a questi aspetti ben definiti il fatto che la ripresa tende ad essere lenta dopo recessioni che sono state provocate non da restrizioni monetarie ma da eccessi del settore privato, e non c’è proprio alcuni mistero che abbia bisogno di spiegazioni.
Tuttavia abbiamo assistito ad una serie infinita di analisi per le quali c’è davvero un profondo mistero, e deve essere colpa di Obama. Probabilmente la più influente di tali analisi è stata la pretesa che Obama stesse creando “incertezza”, e fosse questo a tenere le cose ferme.
Larry Mishel fece una dettagliata demistificazione di questo luogo comune circa due anni orsono [1]. E come previsto, l’indice di incertezza che ognuno stava indicando è crollato [2], senza alcun visibile incoraggiamento all’economia.
Faranno qualche seria autoanalisi coloro che si erano bevuti questa storia? Perché persino me lo chiedo?
[1] Un ampio e documentato articolo di Lawrence Mishel su Economic Policy Institute del 27 settembre 2011. Mishel è il Presidente di tale fondazione.
[2] Per indice di incertezza ci si riferisce allo specifico dato statistico che misura, attraverso indagini particolari, l’incertezza dei soggetti economici sugli andamenti della congiuntura, inclusa quella derivante dalle attese sulle legislazioni e sulle previsioni fiscali. Questi sono i dati più recenti (da Wonkblog, il blog del Washington Post) , che mostrano come tale indice sia tornato quasi ai livelli del 2005:
agosto 6, 2013
August 6, 2013, 10:25 am
Steve Benen catches PolitiFact falling down on the job. But it’s actually even worse than he says.
What happened was that Eric Cantor spoke Sunday about our “growing deficit”, when in fact the deficit is shrinking rapidly. Yet PolitiFact managed, somehow, to declare Cantor’s claim “half true”.
The crucial point here, however, isn’t just that Cantor said something unequivocally false. It is that he said something that gets the whole story upside down.
The central fact at the heart of any rational fiscal debate right now is that deficits are coming down fast, even as the economy remains depressed. The sharp decline in deficits means that the medium-term debt outlook is no longer remotely scary; indeed, even if you project out to 2030 it doesn’t look too bad. At the same time, sharply reducing deficits in a depressed economy, with interest rates up against the zero lower bound, looks like extremely bad macro policy.
So that’s what we should be discussing: do we want deficits coming down this fast?
Yet here we have a senior GOP official talking as if we lived in an alternative universe in which deficits are rising, not falling. And PolitiFact declares his statement half true.
It is, of course, the same old problem: news organizations in general, and PolitiFact in particular, are set up to deal with a world in which both parties generally respect reality, and in which dishonesty and delusion are roughly equally distributed between the parties. Faced with the highly asymmetric reality, they choke — treating mild Democratic exaggerations as if they were equivalent to outright falsehoods on the other side, treating wild misrepresentations on the GOP side as if they were slight misstatements.
This should be simple: PolitiFact should just rule on the facts; it should seek to be party-blind, which isn’t the same as being “nonpartisan”, with its connotation of “balance”. But apparently it can’t do it.
PolitiFact e la forma del Pianeta [1]. Versione deficit.
Risparmi del Governo in percentuale sul PIL
Steve Benen sorprende PolitiFact [2] in uno scivolone sui posti di lavoro. Ma è in effetti persino peggio di quello che lui dice.
Quello che è successo è che Eric Cantor ha parlato domenica di una “deficit crescente”, quando nei fatti il
deficit si sta riducendo rapidamente. Tuttavia PolitiFact riesce in qualche modo ad affermare che la pretesa di Cantor sarebbe una “mezza verità”.
Tuttavia, il punto cruciale, in questo caso, non è soltanto che Cantor ha inequivocabilmente detto qualcosa di falso. Egli ha detto qualcosa che rovescia dal capo ai piedi l’intera storia.
In questo momento, il fatto centrale che è al cuore di ogni discussione razionale è che i deficit stanno scendendo rapidamente, anche se l’economia resta depressa. Il brusco declino dei deficit significa che la previsione del debito sul medio termine non è più neanche lontanamente allarmante; in effetti, neppure se la proiettate sul 2030 essa appare troppo negativa. Contemporaneamente, la brusca riduzione dei deficit in un’economia depressa, con i tassi di interesse che sono dinnanzi al limite inferiore di zero, sembra una politica economica estremamente negativa.
Ecco dunque di cosa dovremmo discutere: vogliamo davvero che i deficit scendano così velocemente?
Tuttavia, abbiamo in questo caso uno sperimentato dirigente del Partito Repubblicano che parla come vivesse in un universo alternativo nel quale i deficit stanno salendo, non calando. E PolitiFact definisce il suo discorso una mezza verità.
Si tratta, come è evidente, dello stesso vecchio problema: gli assetti dell’informazione, e PolitiFact in particolare, sono stati concepiti per misurarsi con un mondo nel quale entrambi i partiti in generale rispettano la realtà, e nel quale la disonestà e le allucinazioni sono egualmente distribuite tra i partiti. Messi di fronte ad una realtà completamente asimmetrica, essi si bloccano – trattano lievi esagerazioni dei Democratici come se fossero equivalenti alle complete falsificazioni dell’altra sponda, e trattano le sfrenate deformazioni dalla parte del Partito Repubblicano come se fossero lievi inesattezze.
Dovrebbe essere semplice: PolitiFact dovrebbe semplicemente basarsi sui fatti; dovrebbe cercare di non guardare in faccia ai Partiti, che non è la stessa cosa di essere “bipartisan”, con la sua implicazione di “bilanciamento”. Ma a quanto pare non può farlo.
[1] Come altre volte abbiamo notato, il riferimento alla “forma del Pianeta” proviene da una vecchia battuta ironica di Krugman, ai tempi di George Bush. Scrisse allora in una occasione che i cosiddetti giornali ‘centristi’ erano così poco obbiettivi, che se un giorno il Presidente se ne fosse uscito con una affermazione per la quale “la Terra è piatta”, il giorno seguente i titoli di quei giornali sarebbero stati “Diversi punti di vista sulla forma del Pianeta”!
[2] PolitiFact è una pubblicazione statunitense che giudica le affermazioni degli uomini politici, o dei commentatori, o comunque di personaggi rilevanti, in ordine ai loro contenuti ‘oggettivi’ di verità, di mezza verità o di aperta menzogna. Ha avuto la sua efficacia, anche se sempre di più è diventata essa stessa suscettibile della procedura che utilizza nei suoi giudizi, come in questo caso.
agosto 5, 2013
August 5, 2013, 8:57 pm
Noah Smith has an interesting note on the “death of theory” in economics. Obviously that’s an exaggeration, but there has been a measurable decline in the number of papers that offer theoretical innovations as opposed to empirical analysis, and also a harder to measure but unmistakable shift in the profession’s value structure, with empiricists reaping greater rewards and theorists valued less.
What’s it about? Smith lays credit or blame at the feet of Daniel Kahneman, who produced clear evidence that people don’t behave the way maximizing models say they should. It’s a nice story, but I don’t think Kahneman shook things up all that much; anyone sensible had long known that the axioms of rational choice didn’t hold in the real world, and those who didn’t care weren’t going to be persuaded by one man’s work.
So what did cause the change? Hey, I don’t have a theory! Well, not at this point anyway. What I can do is describe how I perceived the change as it was happening in two fields I follow closely: trade and business cycle macro. The funny thing is that the story in those two fields seemed, at least at the time, to be quite different.
In trade, we had an explosion of theory in the 1980s — an explosion set off by new models of industrial organization, especially but not only Dixit-Stiglitz, that made it possible to talk coherently about increasing returns and imperfect competition. This was hugely liberating; the New Trade Theory suddenly made sense of observations about the world, like trade between similar countries, that had been terra incognita before. It was a great time to be in the field.
So what happened? After a while, the new approaches came to seem too liberating; by the early 90s the joke was that a smart graduate student could devise a model to justify any policy. And while some important new theoretical work continued to be done, for example the Melitz work on heterogeneous firms or the Eaton-Kortum work on bilateral trade flows, I think you have to say that the field got tired of clever theorizing and wanted data instead. (Both of the bodies of work I just mentioned were in fact inspired by the desire to make sense of the incoming data).
In business cycle macro, the story was on the surface very different: what happened there was that theorists were able to prove some strong results — notably, that anticipated monetary policy should have no real effects — that were manifestly untrue. And while New Keynesian theory tried to patch this up with some ad hoc assumptions about price setting, etc., the sad truth about macro is that, as tools of practical analysis, the models in 1978-vintage undergraduate textbooks seem to work as well as — or, in general, better than — all the theory the field has turned out since then. Not totally true, of course; some useful theory has been turned out by the likes of Mike Woodford, or (on the international side) Ken Rogoff and Maury Obstfeld. But still, theory arguably failed.
So in my experience, anyway, theory lost its luster in trade because it could prove anything; it lost its luster in macro because it proved things that weren’t so.
There may be an overarching story here, but we need more data before we can start telling it.
Cosa ha ammazzato la teoria? (per esperti)
Noah Smith scrive una nota interessante sulla “morte della teoria” nell’economia. Ovviamente è una esagerazione, ma c’è stato un tangibile declino nel numero di studi che offrono innovazioni teoretiche piuttosto che analisi empiriche, ed anche un più difficile da misurare ma indiscutibile spostamento nella struttura della valutazione della disciplina, con gli empiristi che mietono i più grandi riconoscimenti e i teorici che sono meno apprezzati.
Da cosa dipende? Smith scarica credito o colpe ai piedi di Daniel Kahneman, che ha prodotto chiare testimonianze del fatto che le persone non si comportano come i modelli dicono che dovrebbero. E’ una racconto simpatico, ma io non credo che Kahneman smuova le cose di molto; ogni persona ragionevole da tanto tempo sa che gli assiomi delle scelte razionali non tengono nel mondo reale, e coloro che non se ne volevano curare non erano destinati ad essere convinti dal lavoro di una persona singola.
Dunque, cosa ha provocato il cambiamento? Calma, non ho una spiegazione logica! Almeno non in questo momento. Quello che posso fare è descrivere come ho percepito il cambiamento nel mentre ha avuto luogo in due campi che tradizionalmente seguo: il commercio e la teoria macro del ciclo economico. La cosa curiosa è che la storia di quei due settori è apparsa, almeno a quel tempo, piuttosto diversa.
Nel commercio abbiamo avuto una esplosione di teoria negli anni ’80 – una esplosione provocata dai nuovi modelli della organizzazione industriale, specialmente ma non soltanto quello di Dixit-Stiglitz, che rese possibile parlare coerentemente dei rendimenti crescenti e della competizione imperfetta. Questo fu ampiamente liberatorio: la Nuova Teoria del Commercio diede all’improvviso significato a quello che si osservava nella realtà, come il commercio tra paesi simili, che in precedenza era stato un terreno sconosciuto. Fu una grande epoca per chi si trovò ad operare in quel settore.
Cosa accadde, dunque? Dopo un certo periodo, i nuovi approcci cominciarono ad apparire troppo liberatori; con gli anni ’90 la battuta divenne quella per la quale ogni dottorando poteva ideare un modello per giustificare qualsiasi politica. E mentre continuarono ad essere realizzati lavori importanti, per esempio quello di Melitz sulle imprese eterogenee o quello di Eaton-Kortum sui flussi commerciali bilaterali, penso che si possa concludere che il settore si stancò di teorizzazioni intelligenti e volle piuttosto dati statistici (entrambi i nuclei dei lavori che ho appena ricordato furono di fatto ispirati dal desiderio di dare significato ai dati in arrivo).
Nella teoria macro del ciclo economico, la storia in apparenza fu molto diversa: quello che accadde in quel caso fu che i teorici furono capaci di fornire prove per alcuni importanti risultati – in particolare, che la politica monetaria attesa non dovrebbe avere alcun effetto reale – che erano manifestamente non veri. E mentre la teoria Neo Keynesiana cercò di rimediare a questo con qualche assunto ad hoc sulla definizione dei prezzi etc., la triste verità sulla macro è che, come strumenti di analisi pratica, i modelli sui libri di testo per studenti universitari nell’annata del 1978 sembrano funzionare altrettanto bene – o, in generale, meglio – di tutte le teorie che la disciplina mise in circolazione da quel momento. Naturalmente, questo non è vero in assoluto; qualche teoria utile è stata prodotta da individui come Mike Woodford, o (per l’aspetto internazionale) come Ken Rogoff e Maury Obstfeld. Ma anche qua, teorie che a quanto sembra non sono decollate.
Dunque, in ogni caso, nella mia esperienza la teoria ha perso il suo lustro nel commercio perché poteva provare di tutto; ha perso il suo lustro nella macro perché dimostrava cose che non erano tali.
Può darsi che in questa storia ci sia qualcosa che tiene tutto assieme, ma abbiamo bisogno di maggiori dati prima di cominciare a parlarne.
agosto 4, 2013
August 4, 2013, 11:52 am
A few further thoughts inspired by the sad revelation that Beltway conventional wisdom has settled on the proposition that high unemployment is structural, not cyclical, even though there is now a bipartisan consensus among economists that the opposite is true.
First, about the meaning of terms: When economists talk about rising “structural” unemployment, what they actually mean is something quite specific — it’s not vague hand-waving, it’s the assertion that the “full-employment” rate of unemployment, the level of unemployment at which prices and wages start to rise and you risk a wage-price spiral, has increased. When that happens, you can’t solve the unemployment problem just by getting someone to spend more and thereby increasing demand; when it hasn’t happened, you can.
What about all the other things we talk about, like the variation of unemployment across regions or occupations or skills? Well, since the usual story about rising structural unemployment involves some kind of “mismatch” between workers and jobs, you’d expect the “signature” of this mismatch to be the emergence of shortages of workers somewhere or of some kind; so the fact that you don’t see this militates against structural stories. But the ultimate question is always, how low can we push unemployment before inflation becomes a problem — and there is essentially no evidence that this number has gone up since 2007, let alone that it is somewhere near the current unemployment level.
And as I said, there is now a much stronger consensus that unemployment is cyclical, not structural, than there was a couple of years ago. I mentioned Eddie Lazear’s paper at Jackson Hole; there was also Naryana Kocherlakota’s change of heart (for which he deserves major props — the number of economic analysts willing to change their views in the face of evidence is much too small).
So what we have here is an economic discussion working the way things are supposed to work — slower than I’d like, but still,in the end we did have the professionals concluding that one popular story about the nature of our troubles was wrong.
And the pundit class, it seems, paid no attention. Talking about “structural” sounds serious, or maybe Serious, so that’s what they say, even though the evidence is all the other way. And it’s not even “views differ on the shape of the planet” territory: PBS viewers weren’t even given a hint that the professional consensus exists. It’s as if you had a program on climate and only climate-change deniers were represented.
And maybe we should put this in the context of another debate, the big one over austerity. Here too there has been a rather decisive turn in professional opinion; there are a lot of dead-enders even within the economics profession, but the fact remains that both pillars of the pro-austerity position — claims of expansionary austerity, and claims that terrible things happen when debt crosses some rather low threshold — have collapsed, spectacularly. Yet policy hasn’t changed at all; at best there have been tiny adjustments at the margin in Europe, and in the US we’re still slashing spending in the face of a weak economy.
It’s pretty depressing for those who would like to believe that analysis and evidence matter. The recent evolution of both policy and conventional wisdom on macroeconomics seems to suggest otherwise.
C’è in questo qualcosa che ha a che fare con l’analisi economica?
Alcuni ulteriori pensieri ispirati dalla triste rivelazione che la saggezza convenzionale nella Capitale ha fatto proprio il concetto secondo il quale l’elevata disoccupazione è strutturale, non ciclica, anche se oggi c’è un consenso bipartizan tra gli economisti secondo il quale la verità è all’opposto.
Il primo, a proposito del significato delle parole: quando gli economisti parlano di crescente disoccupazione “strutturale”, quello che in effetti intendono è qualcosa di piuttosto specifico – non si tratta di un vago termine generico, si tratta del concetto secondo il quale il tasso di disoccupazione di “piena occupazione”, ovvero il livello di disoccupazione al quale i prezzi ed i salari cominciano a crescere e dunque si rischia una spirale prezzi-salari, è aumentato. Quando accade ciò, non si può risolvere il problema della disoccupazione solo facendo in modo che qualcuno spenda di più e di conseguenza cresca la domanda; quando invece non accade, si può.
Che dire allora di tutte le altre cose di cui parliamo, come la variazione della disoccupazione tra le varie regioni o le varie tipologie di impiego o le competenze? Ebbene, dal momento che il racconto normale sulla crescente disoccupazione strutturale riguarda una qualche forma di “disaccoppiamento” tra lavoratori e posti di lavoro, vi dovreste aspettare che il “segno” di questa divergenza sia l’emergere, da qualche parte e in qualche modo, di una insufficienza di lavoratori; dunque, il fatto che non vediate niente del genere depone contro i racconti strutturali. Ma l’ultima domanda è sempre: quanto possiamo spingere in basso la disoccupazione prima che l’inflazione diventi un problema – e in sostanza non c’è alcuna prova che questo dato sia salito dal 2007, a parte il fatto che esso in qualche modo sia prossimo al livello di disoccupazione attuale.
E, come ho detto, c’è oggi un consenso molto maggiore sul fatto che la disoccupazione sia ciclica e non strutturale di quanto non ci fosse un paio di anni fa. Ho ricordato lo studio presentato da Eddie Lazar a Jackson Hole [1]; ci fu anche il mutamento di atteggiamento da parte di Naryana Kocherlakota (per il quale egli merita molta stima – il numero di analisti economici disponibile a modificare i propri punti di vista a fronte dei fatti è davvero modesto).
Ecco che abbiamo in questo caso un dibattito economico che va nel senso in cui le cose dovrebbero andare – più lentamente di quanto mi piacerebbe, eppure abbiamo avuto i professionisti che, in fin dei conti, hanno concluso che quel racconto popolare sulla natura dei nostri guai era sbagliato.
E la categoria dei commentatori, a quanto pare, non ci ha prestato attenzione. Parlare di cause “strutturali” sembra serio, o magari Serio [2], cosicché è quanto affermano, anche se i fatti vanno per un’altra strada. E non si tratta neppure di “punti di vista differenti sulla forma del pianeta” [3]; i telespettatori della Pubblic Broadcasting Service non hanno avuto il minimo accenno alla esistenza di una consenso tra gli economisti. Come se aveste una trasmissione sui cambiamenti climatici e fossero rappresentati solo i ‘negazionisti’ del cambiamento climatico.
E forse dovremmo collocare tutto questo nel contesto di un altro dibattito, quello più grande sull’austerità. Anche qua c’è stato un cambiamento abbastanza decisivo nelle opinioni professionali; ci sono una quantità di individui che procedono a senso unico anche nella disciplina dell’economia, ma resta il fatto che entrambi i pilastri delle posizioni a favore dell’austerità – le pretese sulla austerità espansiva, e quelle secondo le quali accadono cose terribili quando il debito supera una certa soglia piuttosto bassa – sono crollati in modo spettacolare. Tuttavia la politica non è affatto cambiata; nel migliore dei casi abbiamo avuto minime correzioni al margine in Europa, e negli Stati Uniti stiamo ancora abbattendo la spesa pubblica a fronte di una economia debole.
E’ abbastanza deprimente per coloro i quali vorrebbero credere che l’analisi ed i fatti contano. La recente evoluzione sia della politica che del senso comune in materia economica sembra indicare altrimenti.
[1] Jackson Hole è la località nella quale si tengono normalmente dei simposi economici organizzati dalla Federal Reserve, e probabilmente quello studio è stato presentato in una di quelle occasioni. Nell’ultimo di tali incontri venne anche presentato uno studio del neokeynesiano Woodford sulla possibile efficacia della politica monetaria in situazioni di depressione, del quale Krugman si occupò in un post.
[2] Le Persone Serie, come ormai si sarà notato, sono Serie con la maiuscola …
[3] Si tratta di una vecchia battuta di Krugman, che risale alle sue polemiche contro la stampa ‘centrista’ ai tempi di George W. Bush. Ebbe allora a scrivere che se un giorno il Presidente se ne fosse uscito con l’affermazione secondo la quale la Terra era piatta, i giornali centristi avrebbero titolato “Punti di vista diversi sulla forma del Pianeta”!
agosto 3, 2013
August 3, 2013, 2:27 pm
OK, this is really depressing. The PBS Newshour isn’t always a good place to get the best analysis, but it’s a terrific place to take the pulse of Washington conventional wisdom — and as Dean Baker notes, that conventional wisdom has clearly swung to the view that our high unemployment is “structural”, not something that could be solved simply by boosting demand.
And the question is, where the heck is that coming from?
As Dean also says, the professional consensus has very much moved the other way; you hear a lot less about structural factors from economists actually studying the data than you did a few years ago. Nor is there even much of a partisan divide; solid Republicans like Eddie Lazear (pdf) say things like this:
The recession of 2007-09 witnessed high rates of unemployment that have been slow to recede. This has led many to conclude that structural changes have occurred in the labor market and that the economy will not return to the low rates of unemployment that prevailed in the recent past. Is this true? The question is important because central banks may be able to reduce unemployment that is cyclic in nature, but not that which is structural. An analysis of labor market data suggests that there are no structural changes that can explain movements in unemployment rates over recent years. Neither industrial nor demographic shifts nor a mismatch of skills with job vacancies is behind the increased rates of unemployment. Although mismatch increased during the recession, it retreated at the same rate. The patterns observed are consistent with unemployment being caused by cyclic phenomena that are more pronounced during the current recession than in prior recessions.
Indeed: one strong indicator that the problem isn’t structural is that as the economy has (partially) recovered, the recovery has tended to be fastest in precisely the same regions and occupations that were initially hit hardest. Goldman Sachs (no link) looks at unemployment in the “sand states” that had the biggest housing bubbles versus the rest of the country; it looks like this:
So the states that took the biggest hit have recovered faster than the rest of the country, which is what you’d expect if it was all cycle, not structural change.
I’ve done a quick and dirty take on unemployment by occupation, looking at changes in unemployment rates from the 2007 business cycle peak to the unemployment peak in 2009-10, and then the subsequent decline; it looks like this:
It’s the same as the geographical story: the occupations that took the biggest hit have had the strongest recoveries.
In short, the data strongly point toward a cyclical, not a structural story — and there is broad agreement, for once, among economists on this point. Yet somehow, it’s clear, Beltway groupthink has arrived at the opposite conclusion — so much so that the actual economic consensus on this issue wasn’t even represented on the Newshour.
As I said, this is really, really depressing.
Balla strutturale
Proprio così, questa è davvero deprimente. La trasmissione televisiva Newshour della Pubblic Broadcasting Service non è sempre un luogo idoneo per avere le migliori analisi, ma è un posto fantastico per prendere il polso del senso comune di Washington – e, come nota Dean Baker, quel senso comune si è chiaramente spostato verso il punto di vista secondo il quale la nostra elevata disoccupazione è “strutturale”, non qualcosa che si potrebbe semplicemente risolvere con aiuti alla domanda.
E l’interrogativo è, da dove diavolo viene fuori quell’idea?
Come anche Dean dice, il consenso all’interno della disciplina economica si era assai spostato nella direzione opposta; da parte degli economisti che studiano i dati, si sente molto meno parlare di fattori strutturali di quanto non accadesse pochi anni orsono. Né in questo caso si tratta di una divergenza di parte; un repubblicano convinto come Eddie Lazar dice cose come queste (disponibili in pdf):
“La recessione del 2007-2009 ha messo in evidenza elevati tassi di disoccupazione che sono stati lenti a diminuire. Questo ha portato molti a concludere che fossero intervenuti cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro e che l’economia non sarebbe tornata ai bassi tassi di disoccupazione che prevalevano nel recente passato. E’ vero? La domanda è importante, perché le banche centrali possono essere nelle condizioni di ridurre la disoccupazione di natura ciclica, ma non quella strutturale. Una analisi dei dati sul mercato del lavoro indica che non ci sono mutamenti strutturali che possano giustificare i movimenti dei tassi di disoccupazione degli anni recenti. Né mutamenti nell’industria né nella demografia, e neppure una discordanza tra competenze professionali e posti di lavoro disponibili stanno dietro gli aumentati tassi di disoccupazione. Sebbene tale discordanza sia cresciuta durante la recessione, essa è (poi) arretrata allo stesso livello. Gli schemi osservati sono coerenti con una disoccupazione provocata da fenomeni ciclici, che sono più pronunciati nella attuale recessione che non nelle recessioni precedenti.”
In effetti: un forte indicatore che il problema non è strutturale è che l’economia è (parzialmente) in ripresa e la ripresa ha teso ad essere più veloce precisamente nelle stesse aree e negli stessi luoghi di lavoro dove era stata inizialmente colpita con più forza. Goldman Sachs (connessione non disponibile) osserva la disoccupazione negli “Stati della sabbia” [1] che avevano avuto le bolle immobiliari più grandi rispetto al resto del paese; essa appare in questo modo:
Dunque, gli Stati che presero il colpo maggiore si sono ripresi più velocemente del resto del paese [2], che è quello che ci si aspetterebbe se tutto dipendesse da mutamenti ciclici e non strutturali.
Ho fatto una rapida simulazione della disoccupazione a seconda dell’impiego [3], guardando ai cambiamenti nei tassi di disoccupazione dal picco del ciclo economico del 2007 al picco della disoccupazione nel 2009-10, e poi al successivo declino, ed appare questo:
E’ la stessa cosa che il racconto su base geografica: gli impieghi che avevano preso i colpi maggiori hanno avuto le riprese più forti.
In breve, i dati indicano fortemente una spiegazione ciclica e non strutturale – e c’è un accordo generale, una volta tanto, tra gli economisti su questo punto. Eppure, in qualche modo, è chiaro che i pensatori della Capitale sono arrivati alla conclusione opposta – cosicché il reale consenso economico esistente su questo tema non è stato neppure rappresentato sulla trasmissione Newshour.
Come ho detto, è assolutamente deprimente.
[1] Si intende la Arizona, la California, la Florida ed il Nevada. Nella tabella gli “Stati della sabbia” sono quelli della riga blu, mentre gli altri sono quelli della riga celeste.
[2] Si tenga conto che la tabella indica l’evoluzione del tasso di disoccupazione. Dunque in quegli stati c’è stata una ascesa più brusca della disoccupazione negli anni 2008-2010 ed una discesa più accentuata negli anni successivi.
[3] La espressione si riferisce alle percentuali di disoccupazione nei vari settori dell’impiego (di solito ordinati in una ventina di casi. Ad esempio, nel 2009 il tasso di disoccupazione nel settore dei trasporti e del movimento dei materiali era del 13,6%, nel settore delle costruzioni era del 20,7%, mentre nell’informatica era del 3,9%). Il problema è che dalla tabella non si capisce a cosa si riferiscano i puntini celesti.
agosto 3, 2013
August 3, 2013, 11:12 am
I harp a lot in this blog on the wrongness of the inflation-and-soaring rates crowd — and I do so with a purpose. The reason Very Serious People have so much damaging influence is that they come across as, well, Very Serious; yet they have in fact been not just wrong but ludicrously so, and pointing that out, repeatedly, is one way to help get our economic conversation back on track.
And it’s worth emphasizing, again, that we’re not talking about small errors — 1 percent growth when they said 2, or something. We’re talking about epic mistakes.
So I was glad to be reminded by Brad DeLong of the fact that in early 2009 it wasn’t just gold bugs warning that hyperinflation was nigh; the same message was being conveyed by the likes of Morgan Stanley:
With policymakers around the world throwing massive conventional and unconventional monetary and fiscal stimuli at their economies, we think that it is worth exploring the black swan event of very high inflation or even hyperinflation.
While such an outcome is clearly not our main case, the risk of hyperinflation cannot be dismissed very easily any longer, in our view.
Later that year Morgan Stanley issued an interest rate forecast: the 10-year Treasury yield to rise to 5.5 percent by the end of 2010.
We shouldn’t forget these errors, and the people who made them; they are crucial in evaluating who’s credible now.
Ricordare gli sbagli
Ho battuto a lungo, in questo blog, sul tasto della scorrettezza della gente dell’ “inflazione-e dei-tassi-alle stelle” – e l’ho fatto con uno scopo. La ragione per la quale le Persone Molto Serie hanno una influenza così dannosa è che sono percepite, proprio così, come Molto Serie; tuttavia il fatto che esse abbiano in sostanza non solo avuto torto, ma in modo talmente clamoroso e, si deve mettere in evidenza, ripetuto, è stato un modo per contribuire a mettere fuori dai binari il nostro dibattito economico.
E merita ancora una volta porre l’accento sul fatto che non stiamo parlando di piccoli errori – di una crescita dell’1 per cento mentre loro dicevano 2, o cose del genere. Stiamo parlando di errori epici.
Per questo sono stato contento di essere stato ricordato da Brad DeLong per il fatto che agli inizi del 2009 non erano solo i fanatici dell’oro a mettere in guardia su una prossima iperinflazione; lo stesso messaggio veniva trasmesso dai soggetti della Morgan Stanley [1]:
“Con gli operatori politici in tutto il mondo che gettano massicci sostegni di finanza pubblica e monetari, di tipo convenzionale e non convenzionale, sulle loro economie, noi crediamo che sia il caso di prendere in considerazione la rarissima eventualità [2] di una elevatissima inflazione od anche di una iperinflazione.
Se un tale risultato non è la nostra tesi principale, il rischio di una iperinflazione non può più a lungo essere semplicisticamente liquidato, secondo la nostra opinione.”
Più tardi, nello stesso anno, la Morgan Stanley mise in circolazione una previsione sul tasso di interesse: il rendimento dei buoni decennali del Tesori sarebbe cresciuto del 5,5 per cento entro la fine del 2010.
Non dovremmo dimenticare questi errori né le persone che li fecero; essi sono cruciali nella valutazione di quanto siano credibili.
[1] La Morgan Stanley è un famoso istituto finanziario americano. Fondata come banca d’affari nel 1935, dal 22 settembre del 2008 la Morgan Stanley è diventata – a seguito delle misure di sostegno per la crisi che aveva colpito le principali banche commerciali americane con la crisi dei subprime – una holding bancaria con facoltà anche di raccogliere depositi a risparmio. In quel modo essa ha potuto beneficiare dell’accesso alla ‘finestra’ della Federal Reserve per ottenere liquidità ed assicurazione sui depositi.
[2] Letteralmente l’evento ‘del cigno nero’ (o, diremmo noi, della ‘mosca bianca’).
agosto 3, 2013
August 3, 2013, 10:55 am
The big if hard-to-report story in DC last week was the ongoing collapse in governance, as Republicans proved themselves unable to reconcile their ideological commitment to drastically lower government spending with the reality that they and their constituents actually benefit from said spending. They’re willing to impose savage cuts on the poor — but even that gets them nothing like the spending cuts they claim they’ll make. Yet rather than acknowledge this reality, they’re basically sticking their heads in the sand. As the Times puts it:
Congress appeared at a dead end, unable to pass spending bills at the levels mandated by the across-the-board spending cuts, but unwilling to retreat to higher numbers set by the 2011 Budget Control Act before those cuts went into force.
But how did they get into this dead end? There’s a long history here — Republicans have been for lower spending in the abstract, but unable to find things they actually want to cut, for a long time. But the more immediate source of their present difficulties is the Ryan budget. Remember how that budget was initially greeted with cheers and adulation? But the CBO wasn’t fooled; in fact, its report came as close as I’ve ever seen to being openly sarcastic, especially with regard to the kinds of spending that now have Congress paralyzed:
The path for all other federal spending excluding interest—that is, for discretionary spending and mandatory spending apart from that for Social Security and the major mandatory health care programs—was specified by Chairman Ryan’s staff. The remaining part of mandatory spending includes such programs as federal civilian and military retirement, the Supplemental Nutrition Assistance Program, unemployment compensation, Supplemental Security Income, the refundable portion of the earned income and child tax credits, and most veterans’ programs. Discretionary spending includes both defense spending and nondefense spending—in roughly equal amounts currently. That combination of other mandatory and discretionary spending was specified to decline from 12 percent of GDP in 2010 to about 6 percent in 2021 and then move in line with the GDP price deflator beginning in 2022, which would generate a further decline relative to GDP. No proposals were specified that would generate that path.
By budget office standards, that last sentence is uproarious.
And sure enough, the GOP can’t actually come up with policies to “generate that path”. So faced with this reality, House Republicans have … voted for the 40th, or maybe the 60th time (but who’s counting) to repeal Obamacare.
Cronaca di una impasse annunciata
A Washington, la grande seppure difficile da raccontare storia della settimana passata è stato il perdurante collasso nelle funzioni di governo, dal momento che i Repubblicani si sono mostrati incapaci di conciliare il loro impegno ideologico per una più bassa spesa pubblica con la realtà per la quale loro ed i loro elettori traggono in effetti benefici da detta spesa. Dicono di voler imporre tagli selvaggi sulla povera gente – ma persino quello non darebbe loro niente di simile ai tagli che dicono di voler fare. Tuttavia, piuttosto che riconoscere questa realtà, fondamentalmente ficcano le loro teste nella sabbia. Come si esprime The Times:
“Il Congresso è apparso ad un punto morto, incapace di approvare i provvedimenti di spesa ai livelli che sono stati stabiliti dai tagli alla spesa, ma indisponibile a riconsiderare le cifre elevate stabilite dalla Legge di Controllo sul Bilancio del 2011, prima che quei tagli venissero posti in essere.”
Ma come sono finiti in questo vicolo cieco? Dietro c’è una lunga storia – i Repubblicani sono stati astrattamente per una spesa più bassa, ma incapaci per un lungo tempo di trovare cose che effettivamente volessero tagliare. Ma l’origine più recente delle loro attuali difficoltà è la proposta di bilancio di Ryan. Ricordate come quella proposta fu all’inizio accolta con acclamazioni e complimenti? Ma il Congressional Budget Office non si fece prendere in giro: in sostanza, la sua relazione era, come avevo visto, abbastanza vicina ad un aperto sarcasmo, in particolare a proposito dei tipi di spesa che a questo punto hanno paralizzato il Congresso:
“L’indirizzo per tutte le altre spese federali esclusi gli interessi – vale a dire, per le spese discrezionali e per quelle obbligatorie, a parte quelle per la Previdenza Sociale e per i principali programmi obbligatori della assistenza sanitaria – è stata specificato dallo ‘staff’ del Presidente Ryan [1]. La parte restante delle spese obbligatorie include programmi quali il pensionamento dei dipendenti civili e militari federali, il Programma di Assistenza Nutrizionale Aggiuntiva, i sussidi alla disoccupazione, il Reddito Aggiuntivo di Sicurezza[2] ,la parte restituibile dei redditi da salari e stipendi e i crediti di imposta sui figli, e gran parte dei programmi per i militari in congedo. Le spese facoltative includono sia quelle per la difesa che quelle non militari – in parti approssimativamente uguali. Quella combinazione di altre spese obbligatorie e facoltative è stata specificata per ottenere una riduzione dal 12 per cento del PIL nel 2010 al 6 per cento del PIL nel 2021 e di conseguenza per muoversi in linea con il deflatore di prezzo del PIL a cominciare dal 2022, la qualcosa genererebbe una ulteriore riduzione in relazione al PIL. (Ma) non è stata specificata alcuna proposta che potrebbe produrre quell’indirizzo.”
Per le abitudini dell’Ufficio del Bilancio, quell’ultimo giudizio è esilarante [3].
Ed è del tutto chiaro che, a questo punto, il Partito Repubblicano non può in effetti venirsene fuori con politiche capaci di produrre quell’indirizzo. Cosicché i Repubblicani della Camera, messi di fronte alla realtà, hanno …. votato per la quarantesima volta, o forse per la sessantesima (ma chi le conta?), per abrogare la legge di assistenza sanitaria di Obama.
[1] Ryan è Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti e quando ci si riferisce al ‘Bilancio di Ryan’ si intende la sua proposta come Presidente della Commissione.
[2] Il Supplemental Security Income è un programma federale di sussidi ai redditi bassi, finanziati con le entrate generali della tassazione (e non con le trattenute per la Previdenza Sociale) rivolto ad aiutare la popolazione anziana, cieca e disabile con redditi bassi ed a fornire forme di sostegno per i bisogni alimentari, di vestiario e abitativi.
[3] Vale a dire, che l’indipendente Ufficio del Bilancio aveva fatto notare sin dall’inizio che per ottenere i pretesi risultati di riduzione della spesa propagandati da Ryan si sarebbe dovuto ‘mordere’ in quell’elenco spinoso di spese facoltative ed obbligatorie, perché altre non ce n’era.
agosto 2, 2013
August 2, 2013, 5:16 pm
OK, traffic is mysterious — and yes, I have read Tom Vanderbilt. Last week I fought rolling traffic jams all across CT in the middle of the day; today I zipped into Manhattan with barely a delay, late on a Friday afternoon. So I have a bit of time.
And self-indulgently, I want to talk a bit about macroeconomic theory.
Simon Wren-Lewis posts partly about Japan, partly about the zero lower bound, partly about a very useful point from Chris Dillow that I somehow missed about the importance of mechanisms as opposed to models in economic analysis.
What’s that about? Actually, I don’t think there’s as clear a distinction as Dillow suggests, but I do see what he’s talking about. Take the most widely used model in all of economics, supply and demand — and yes, it is a model, not a law of nature or a mystical truth. When we talk about supply and demand, we’re talking largely about the notion that a rising or falling price can bring the quantity people want to sell into line with the quantity people want to buy; we even sometimes call it the “price mechanism”. Supply and demand as a model then adds the proposition that prices will in fact rise or fall to achieve this outcome — but that’s not quite the same thing as the price mechanism itself. And woe unto the economist who forgets that his claim that supply and demand get balanced must operate through the price mechanism.
Now, I would argue that the mechanisms we talk about in economics are themselves models — simplified representations of how people behave. But let’s not get hung up on semantics: Dillow and Wren-Lewis are both right that a key part of economic wisdom is thinking about the mechanisms we suppose are acting in the real economy; on one side, these mechanisms may not be specific to a particular model, and on the other hand any model had better have persuasive mechanisms in it, or it’s not helpful.
Which brings us to the macro issues.
In Econ 101 textbooks (mine included) it’s standard to present the distinction between the long run and the short run with a picture something like this:
Here AD is the aggregate demand curve; more on that in a second. SRAS is the short-run aggregate supply curve, which is assumed to be upward-sloping because some prices and/or wages are sticky; LRAS is the long-run aggregate supply curve, which is vertical because in the long run price stickiness is assumed to go away.
Suppose aggregate demand falls for some reason, say a global financial crisis. Then what the textbook says happens is illustrated by the red arrows. First the economy contracts, then, over time, it expands again as prices fall. And this leads to the notion that demand-side stories are all bound up with the assumption of price stickiness, and in turn, as Wren-Lewis notes, to the adoption of real business cycle models by economists who couldn’t stomach the deviation from perfect rationality that sticky prices seem to require.
But as Wren-Lewis also notes, before you say “I don’t believe in sticky prices, or at least not except for very brief periods, and therefore I believe that the economy is almost always close to full employment”, you should think though the mechanism by which flexible prices supposedly restore full employment. In the picture I just drew, the answer is that you slide down the AD curve. But why is the AD curve downward-sloping? Any plausible story runs through interest rates: either you have a fixed nominal money supply, so a rise in the real money supply drives rates down; or you have in mind some kind of stabilizing policy by the central bank.
And the point, of course, is that we are up against the zero lower bound. In terms of AS-AD, this surely leads to a picture like this:
Falling prices can’t reduce interest rates, so it’s hard to see why the AD curve should slope down [with a small caveat, below]; and in fact, because falling prices worsen the real burden of debt, it’s a good bet that the AD curve slopes the “wrong” way. In this context price flexibility doesn’t lead to full employment. In fact, the more flexible prices are, the worse the economic contraction.
And the zero lower bound isn’t a hypothetical — it’s what is actually happening out there in the real world. So it makes no sense to say “I don’t believe in sticky prices, and therefore I don’t believe in demand shocks”; what is the mechanism through which your assumed flexible prices restore full employment?
Now, the reality is that prices and especially wages are sticky — which is why we don’t see runaway deflation. But that stickiness isn’t what’s keeping unemployment high, it’s just something we have to let into our models to make sense of what we see out there.
But it sure looks as if a lot of the economics profession has lost its way here. Younger economists in particular are vaguely aware that Lucas and co. made a fierce attack on the “microfoundations” of price stickiness; they think this “proved” that aggregate demand can’t be a problem; and they don’t realize that the whole argument dissolves into nonsense in the face of a liquidity trap.
OK, about that caveat: even in a liquidity trap, deflation could be expansionary if it is perceived as temporary, so that deflation now gives rise to expectations of future inflation. But if there are any real business cycle theorists using this as the core of their argument, I’ll eat my microfoundations.
So back to the original point: we can argue about whether the models versus mechanisms distinction is really a clear one. No matter: at all times, but especially in these times, it’s a very good idea to ask, when some economist offers a proposition about the economy, “Um, how exactly is that supposed to work?” You’d be amazed how often no answer is forthcoming.
Modelli e meccanismi (per esperti)
E’ vero, il traffico è imprevedibile – e ammetto anche d’aver letto Tom Vanderbilt [1]. A mezzogiorno della scorsa settimana stavo combattendo contro ondeggianti ingorghi di traffico attraverso il Connecticut [2]; oggi sono sfrecciato dentro Manhattan, appena con un po’ di ritardo, in un tardo pomeriggio di venerdì. Dunque ho un po’ di tempo.
E, per piacere personale, voglio un po’ parlare di teoria macroeconomica.
Simon Wren-Lewis scrive, parlando un po’ del Giappone, un po’ del limite inferiore dello zero, un po’ di un utilissimo agomento di Chris Dillow, che in qualche modo avrei trascurato l’importanza dei meccanismi , in alternativa ai modelli, nella analisi economica.
Di cosa si tratta? In effetti, io non penso che ci sia una netta distinzione come suggerisce Dillow, ma senza dubbio capisco di cosa stiamo parlando. Prendiamo il modello più ampiamente usato tra tutti quelli dell’economia, l’offerta e la domanda – è vero, si tratta di un modello, non di una legge della natura o di una verità rivelata. Quando parliamo di offerta e di domanda, stiamo in gran parte parlando del concetto secondo i quale la crescita o la caduta di un prezzo può portare la quantità di persone che vogliono vendere ad allinearsi con la quantità di persone che vogliono comprare; talvolta lo chiamiamo anche il “meccanismo del prezzo”. L’offerta e la domanda come modello aggiungono poi la proposizione che i prezzi di fatto saliranno o caleranno per ottenere questo risultato – ma quella non è del tutto la stessa cosa del meccanismo del prezzo in sé. E guai all’economista che dimentichi che la sua tesi per la quale l’offerta e la domanda si bilanciano deve operare attraverso il meccanismo del prezzo.
Ora, mi sentirei di sostenere che i meccanismi dei quali stiamo parlando in economia sono essi stessi modelli – rappresentazioni semplificate di come le persone si comportano. Ma non facciamoci ossessionare dalla parole: Dillow e Wren-Lewis hanno entrambi ragione a sostenere che una parte cruciale della saggezza economica è pensare attraverso i meccanismi che supponiamo operino nell’economia reale; da un parte, questi meccanismi possono non essere specifici di un particolare modello, e per altro verso ogni modello sarebbe meglio avesse meccanismi persuasivi in se stesso, altrimenti non sarebbe utile.
Il che ci porta alle tematiche della teoria economica.
Nei libri di testo universitari (incluso il mio) è comune presentare la distinzione tra i lungo periodo ed il breve periodo con una rappresentazione come questa:
In essa, AD è la curva della domanda aggregata; ne parlerò più diffusamente tra un secondo. SRAS è la curva dell’offerta aggregata di breve periodo, che si assume abbia una inclinazione verso il basso perché alcuni prezzi e/o salari sono vischiosi [3]; LRAS è la curva dell’offerta aggregata di lungo periodo, che è verticale perché si assume che nel lungo periodo la rigidità dei prezzi scompaia.
Supponiamo che la Domanda Aggregata per qualche ragione cada, ad esempio per una crisi finanziaria globale. Quello che allora dicono i libri di testo è illustrato dalle freccine rosse. In una prima fase l’economia si contrae, poi, col tempo, si espande di nuovo ed i prezzi calano [4]. E questo porta al concetto secondo il quale tutte le spiegazioni dal lato della domanda sono legate all’assunto della vischiosità dei prezzi, e a sua volta, come Wren-Lewis nota, alla adozione di modelli di ciclo economico reale da parte di quegli economisti che non potrebbero sopportare la deviazione dalla perfetta razionalità che i prezzi rigidi sembrano richiedere.
Ma come nota sempre Wren-Lewis, prima di dire “Io non credo nei prezzi vischiosi, o almeno non ci credo se non per periodi molto brevi, e di conseguenza credo che l’economia sia quasi sempre vicina a condizioni di piena occupazione”, dovreste pur pensare al meccanismo per effetto del quale i prezzi flessibili si suppone che ristabiliscano la piena occupazione. Nel diagramma che ho appena disegnato, la risposta sta nel fatto che si fa scivolare verso il basso la curva della Domanda Aggregata (AD). Ma perché la curva della Domanda Aggregata scivola verso il basso? Ogni spiegazione plausibile passa attraverso i tassi di interesse: o avete una offerta nominale di moneta fissa, nel quale caso un crescita nell’offerta reale di moneta spinge i tassi verso il basso; oppure avete in mente un qualche genere di politica di stabilizzazione da parte della banca centrale.
E il punto, ovviamente, è che noi siamo di fronte ad una situazione da “limite inferiore di zero” [5]. In termini di Offerta Aggregata – Domanda Aggregata, questo certamente porta ad un diagramma come il seguente :
I prezzi che cadono non possono ridurre i tassi di interesse, cosicché è difficile vedere perché la curva della Domanda Aggregata dovrebbe inclinare verso il basso (con una piccola avvertenza, sotto); e di fatto, giacché la caduta dei prezzi peggiora il peso reale del debito, è una bella scommessa che la curva della Domanda Aggregata penda nel modo “sbagliato”. In questo contesto, la flessibilità dei prezzi non porta alla piena occupazione. Di fatto, più i prezzi sono flessibili, peggiore è la contrazione dell’economia.
Ed il limite inferiore dello zero non è una situazione ipotetica – è quello che sta accadendo nel mondo reale in questo momento. Non ha dunque senso dire “Io non credo nella rigidità dei prezzi e dunque non credo nelle crisi da domanda”; cos’altro è il meccanismo attraverso il quale avete supposto che i prezzi flessibili ripristinino la piena occupazione?
Ora, la realtà è che i prezzi e in particolare i salari sono vischiosi – che è la ragione per la quale non assistiamo ad una deflazione fuori controllo. Ma non è quella vischiosità che sta tendendo la disoccupazione alta, è solo qualcosa che abbiamo fatto entrare nei nostri modelli per dare senso a quello che osserviamo all’esterno.
Ma di certo sembra che in questo caso una parte della disciplina economica abbia perso la sua strada. Gli economisti più giovani in particolare sono vagamente consapevoli del fatto che Lucas [6] e la sua compagnia hanno condotto una attacco feroce ai “microfondamenti” della vischiosità dei prezzi; essi pensano che questo “abbia dimostrato” che la Domanda Aggregata non possa essere un problema; e non comprendono come tutta quella intera argomentazione possa risolversi in un nonsenso a fronte di una trappola di liquidità.
Infine, a proposito di quella avvertenza: persino in una trappola di liquidità, la deflazione potrebbe essere espansiva se fosse percepita come temporanea, in modo tale che la deflazione di oggi faccia crescere le aspettative di una inflazione futura. Ma se esistesse un qualche teorico del ciclo economico reale che mettesse questo al centro della sua argomentazione, mi mangerei i miei microfondamenti!
Dunque, tornando al punto di partenza: possiamo discutere se la distinzione tra modelli e meccanismi sia effettivamente chiara. Non è importante: in tutti i tempi, ma specialmente in questi, quando un qualsiasi economista avanza un’idea sull’economia, l’idea davvero buona è chiedergli: “Beh, esattamente come dovrebbe funzionare?”. Sareste colpiti da quanto frequentemente la risposta è tutt’altro che disinvolta.
[1] E’ l’autore di un libro sul traffico ed i modi di guida degli americani.
[2] Lo stato che confina con New York (quindi mi pare possibile che la sigla indichi quello stato).
[3] Più letterale. Se si preferisce: rigidi.
[4] Chi avesse qualche difficoltà a seguire la spiegazione, tenga conto che sulla linea orizzontale abbiamo il PIL reale e su quella verticale il livello dei prezzi. Se dunque, a seguito di una crisi, si ha una contrazione dell’economia, essa sarà espressa dal fatto che l’offerta aggregata di breve periodo (SRAS) scende andando sempre più a sinistra della linea orizzontale del PIL reale, ovvero il PIL diminuisce.
[5] Per “limite inferiore si zero” si vedano anche le note sulla traduzione. In ogni caso, dato che esso significa quella situazione nella quale – come oggi – i tassi di interesse sono prossimi allo zero, e dunque non è possibile una politica monetaria efficace che operi attraverso un ulteriore abbassamento dei tassi di interesse, può essere utile vedere nel diagramma cosa cambia in un contesto del genere. La crisi comporta che entrambe le curve della Domanda Aggregata cadono in modo verticale. Ma non essendo possibile una correzione dal lato della riduzione dei tassi di interesse, non interviene alcun miglioramento dal lato della curva dell’Offerta, che non può avere quella torsione verso un miglioramento del PIL che si notava nel diagramma precedente.
[6] Robert Emerson Lucas (Yakima, 5 settembre 1937) è un economista statunitense. Si laureò in storia nel 1959 e ottenne successivamente un Ph.D. in Economia nel 1964, entrambi i titoli conseguiti all’Università di Chicago. Ha insegnato alla Carnegie Mellon University fino al 1975, per tornare poi a quella di Chicago. È stato probabilmente uno degli economisti più influenti dagli anni settanta, ha contribuito a cambiare i fondamenti della teoria macroeconomica, argomentando che un modello macroeconomico deve contenere fondamenti microeconomici. È conosciuto, in primo luogo, per le sue ricerche circa le implicazioni nell’assumere le “aspettative razionali“. Ha sostenuto la visione del ciclo economico come equilibrio dinamico. In pratica, uno dei principali esponenti delle teoria economica conservatrice, o antikeynesiana, o propensa a ritenere superata l’epoca delle gravi crisi recessive e comunque ostile all’intervento pubblico nell’economia.
agosto 1, 2013
August 1, 2013, 7:57 pm
Is economic/political commentary like writing detective stories? In some ways, I think, it is; certainly I have always taken to heart some passages in Raymond Chandler’s The Simple Art of Murder, especially the passage in which he distinguishes between the inherent importance of themes and the extent to which they are a good subject for writers:
Other things being equal, which they never are, a more powerful theme will provoke a more powerful performance. Yet some very dull books have been written about God, and some very fine ones about how to make a living and stay fairly honest.
Right now, if inherent importance were all that mattered, I wouldn’t be writing about the effects of sprawl, or the Fed succession, or even, probably, about China’s brick-wall problem. I would instead be writing all the time about the looming chaos in U.S. governance.
In the short run the point is that Republican leaders are about to reap the whirlwind, because they haven’t had the courage to tell the base that Obamacare is here to stay, that the sequester is in fact intolerable, and that in general they have at least for now lost the war over the shape of American society. As a result, we’re looking at many drama-filled months, with a high probability of government shutdowns and even debt defaults.
Over the longer run the point is that one of America’s two major political parties has basically gone off the deep end; policy content aside, a sane party doesn’t hold dozens of votes declaring its intention to repeal a law that everyone knows will stay on the books regardless. And since that party continues to hold substantial blocking power, we are looking at a country that’s increasingly ungovernable.
The trouble is that it’s hard to give this issue anything like the amount of coverage it deserves on substantive grounds without repeating oneself. So I do try to mix it up. But neither you nor I should forget that the madness of the GOP is the central issue of our time.
While I’m at it, a note to loyal readers: I know that my output has been a bit low this week; that’s because of family matters that among other things have me on the road. My guess is no posts at all tomorrow, unless traffic is a lot less severe than I expect. Normalcy should return next week.
Il caos incombe
I commenti economici e politici, sono come scrivere storie poliziesche? In qualche modo, penso che lo siano: di sicuro io ho sempre preso molto sul serio alcuni passaggi de “La semplice arte dell’omicidio” di Raymond Chandler, specialmente il passaggio in cui egli distingue tra l’importanza intrinseca dei temi e la misura in cui essi sono buoni soggetti per gli scrittori:
“A parità di condizioni, il che non accade mai, un tema più potente provocherà una prestazione più potente. Tuttavia si sono scritti libri noiosissimi su Dio, ed altri interessantissimi su come guadagnarsi da vivere restando complessivamente onesti.”
In questo momento, se l’intrinseca importanza fosse l’unica cosa che conta, io non dovrei scrivere sugli effetti della dispersione, o sulla successione alla Fed, o persino, probabilmente, sul problema della Cina che va a sbattere contro il muro. Dovrei invece scrivere tutto il tempo sull’incombente caos nel governo degli Stati Uniti.
Nel breve periodo il punto è che i dirigenti repubblicani stanno per beccarsi una tempesta, perché non hanno avuto il coraggio di dire alla base che la riforma sanitaria di Obama è destinata a restare, che il ‘sequestro’ [1] è in sostanza intollerabile, e che in generale essi hanno, almeno sinora, perso la guerra sulla forma della società americana. Di conseguenza, stiamo per assistere a molti mesi di drammatizzazione completa, con un’alta probabilità di un blocco delle funzioni di governo e persino di defaults sul debito [2].
Nel più lungo periodo, il punto è che uno dei due maggiori partiti politici americani non ci sta più con la testa; a prescindere dall’argomento politico, un partito sano non detiene dozzine di voti dichiarando la sua intenzione di abrogare una legge che tutti sanno che funzionerà regolarmente qualunque cosa esso faccia. E, dato che quel partito continua a possedere un potere sostanziale di blocco, quello che abbiamo dinanzi è una paese sempre più ingovernabile.
Il guaio è che è difficile dare a questo tema qualcosa che assomigli all’attenzione che merita in termini sostanziali, senza ripetersi. Cosicché io cerco di mescolarlo con altri. Ma né voi né io dovremmo dimenticare che il tema della follia del Partito Repubblicano è la questione centrale del nostro tempo.
Già che sono a questo punto, una nota per i lettori fedeli: so che la mia produzione è stata un po’ bassina questa settimana; è dipeso da problemi familiari che tra le altre cose mi costringono a viaggiare. La mia impressione è che non ci saranno posts sino a tutto domani, se il traffico non è meno caotico di quanto ci si aspetti. Il ritorno alla normalità dovrebbe avvenire la prossima settimana.
[1] Ovvero, l’ostruzionismo antigovernativo implicito nella minaccia di non approvare il cosiddetto ‘tetto del debito’ (vedi le note sulla traduzione).
[2] Entrambe sarebbero conseguenze della non approvazione del ‘tetto del debito’. Nel primo caso, perché d’un tratto molti ordinari finanziamenti già autorizzati si troverebbero bloccati; nel secondo caso perché si troverebbe ad un certo punto bloccato anche il pagamento degli interessi sulle obbligazioni sul debito, mandando in default, almeno per un po’, l’intero sistema finanziario statunitense.
agosto 1, 2013
August 1, 2013, 7:38 am
Brad DeLong asks why the left views Larry Summers as a right-wing hyena. I think that’s a straw man, or maybe a straw hyena. What is true is that a lot of people even on the moderate left don’t trust Summers, even though much of his commentary over the years has been very much center-left — and since leaving office he has become one of our most prominent fiscal doves.
Where does this mistrust come from? Well, let me give you an example: Jackson Hole, 2005, a conference dedicated to celebrating the record of, ahem, Alan Greenspan. Raghuram Rajan had presented a paper warning that the risks of financial instability were much higher than most people were acknowledging. (I think Rajan has been wrong on many issues since then, but that was certainly a prophetic paper). And the response, in general, took the form of ridicule.
The principal discussant was Don Kohn (pdf), who was (barely) polite but completely wrong-headed, celebrating financial innovations such as “the growing ease of housing equity extraction”:
Leading off on the rest of the discussion (pdf) was Larry Summers, who wasn’t polite, dismissing Rajan for being “slightly Luddite” in questioning the value of financial innovation, which he compared (in a really bad analogy) to technological progress in transportation.
Now, lots of people got this stuff wrong — although you want to bear in mind that we’re not talking about the 1990s now, we’re talking about 2005. And we all make mistakes. But have either Summers or Kohn ever acknowledged that they got it wrong, and explained why?
And you can see, I think, why “the left” — while not, in fact, viewing Summers as a hyena — is a bit upset that the only people President Obama has mentioned as alternatives to Janet Yellen are Summers and Kohn.
Memorie di economisti che si comportano male
Brad DeLong chiede perché la sinistra consideri Larry Summers come una iena di destra. Penso che si tratti di un diversivo, diciamo una iena di paglia, piuttosto che un uomo di paglia. Quello che è vero è che molte persone persino della sinistra moderata non si fidano di Summers, anche se molti dei suoi commenti nel corso degli anni sono stati effettivamente di centrosinistra – e dal momento in cui ha lasciato il suo incarico è diventato una delle nostre più illustri colombe, in materia di finanza pubblica.
Da dove viene questa sfiducia? Ebbene, fatemi avanzare un esempio: anno 2005, Jackson Hole, conferenza dedicata a celebrare le prestazioni, nientedimeno, di Alan Greenspan. Raghuram Rajan aveva presentato uno studio che metteva in guardia sul fatto che i rischi di instabilità finanziaria fossero molto maggiori di quanto si stesse riconoscendo (penso che Rajan abbia avuto, da quel momento, torto su molte cose, ma quello fu certamente una saggio profetico). E, in generale, le risposte si risolsero in ironia.
Il principale interlocutore nel dibattito fu Don Kohn (disponibile in pdf) che fu (abbastanza) corretto ma del tutto pervicace nell’errore, e celebrò le innovazioni finanziarie come “la crescente comodità del prelievo dei valori immobiliari” [1]:
“La dottrina Greenspan ritiene che questi sviluppi, a bilancio, migliorino il funzionamento dei mercati finanziari e delle economie reali che sorreggono. Consentendo agli istituti di diversificare i rischi, più precisamente di scegliere i loro profili di rischio, e di migliorare la gestione dei rischi assunti, essi rendono tali istituti più robusti. Rendendo più robusti gli intermediari e dando a coloro che si indebitano una maggiore varietà di prestatori da cui attingere i finanziamenti, questi sviluppi hanno anche reso il sistema finanziario più reattivo e flessibile – più capace di assorbire gli shocks senza aumentare gli effetti di tali shocks sull’economia reale. E facilitando il flusso dei risparmi attraverso i mercati ed i confini nazionali, questi sviluppi hanno contribuito ad una migliore allocazione delle risorse ed hanno promosso la crescita.”
Larry Summers diede avvio al successivo dibattito (disponibile in pdf) e non fu altrettanto corretto, liquidando Rajan come “leggermente luddista” per aver avanzato obiezioni sul valore delle innovazioni finanziarie, che egli paragonò (con una analogia davvero pessima) al progresso tecnologico nel settore dei trasporti.
Ora, una gran numero di persone hanno compreso che questa era roba sbagliata – sebbene si debba ricordare che in questo momento non stiamo parlando degli anni ’90, bensì del 2005. E tutti noi facciamo errori. Ma Summers o Kohn hanno mai riconosciuto di aver fatto quegli sbagli, ed hanno spiegato per quali ragioni?
Così, penso, ci si possa rendere conto del motivo per il quale “la sinistra” – seppure, in realtà, non considerando Summers come una “iena” – sia un po’ imbarazzata dal fatto che le uniche persone che il Presidente Obama ha menzionato in alternativa a Janet Yellen siano Summers e Kohn.
[1] In economia, il “mortgage equity withdrawal” (che suppongo si possa tradurre con: “prelievo di valore da un bene ipotecato”) è la decisione del consumatore di prendere a prestito denaro a fronte del valore reale della propria abitazione. Per valore reale si intende il valore della proprietà dedotte tutte le passività accumulate (ipoteche, mutui etc.). Alcuni autori usano anche il termine “equity extraction” – che ha praticamente lo stesso significato – ed includono i pagamenti netti che si ricevono al momento della vendita di un alloggio. In questo caso l’uso tradizionale di una “equity extraction” è quello dell’acquisto di una nuova abitazione (Wikipedia in lingua inglese).
In sostanza si tratta della abitudine, assai in uso all’epoca, di passare da un debito ad un nuovo debito, utilizzando come garanzia la parte del precedente bene del quale si è divenuti proprietari.
luglio 31, 2013
July 31, 2013, 7:01 am
Neil Irwin urges us to stop talking about inflation hawks and doves. Tim Duy agrees that the terminology is misleading, but admits that it’s not going to change, so that we should focus on clarifying what the distinction really means. And I’d liketo second that.
For the hawks/doves divide at the Fed, and more broadly, isn’t really about inflation tolerance. Nor is it about toughness, about being willing to do what needs to be done. It’s about economic models.
First, a word on inflation tolerance: the truth is that nobody at the Fed is advocating a significant rise in the inflation target. At most, some players want to turn 2 percent into a true target, with deviations on either side regarded as equally bad; this would actually represent a change in behavior, since the Fed has in practice treated 2 percent as a ceiling. But there’s nothing like Abenomics, an effort to boost the economy by fundamentally changing inflation expectations, on anyone’s agenda — at least not yet. (Give us a lost decade or two, and that may change).
So if there isn’t a big divide on the inflation target, what is the difference? The answer is that the hawks believe in immaculate inflation — they believe that a large Fed balance sheet can translate into an inflation surge even with the economy depressed.
It’s not clear how they think this would work; who, exactly, is going to raise prices in the face of all that economic slack? At some level, however, I think the hawks view what we’re going through as a supply-side phenomenon; they don’t really believe that we are suffering from a demand shortfall, and they also don’t seem to think that the zero lower bound makes any difference.
And the crucial point is that they have been wrong every step of the way, but keep demanding monetary tightening anyway.
So the hawks aren’t people willing to do what needs to be done; they’re people with a strange compulsion to do what doesn’t need to be done. And that’s why we need more doves at the Fed.
A proposito di pennuti
Neil Irwin ci sollecita a smetterla di parlare di falchi e di colombe. Tim Duy concorda che si tratti di una terminologia inopportuna, ma riconosce che non è destinata a cambiare, cosicché dovremmo concentrarci nel chiarire che cosa quella distinzione realmente significhi. Che è quello che vorrei cercar di fare.
Perché la divisione tra falchi e colombe alla Fed, e più in generale, non riguarda in verità la apertura mentale verso l’inflazione. Né ha a che fare con la durezza, con il voler fare quello che deve essere fatto. Riguarda i modelli economici.
In primo luogo, una parola a proposito della apertura mentale verso l’inflazione: la verità è che alla Fed nessuno sta sostenendo una crescita significativa dell’obbiettivo di inflazione. Al massimo, alcuni protagonisti vorrebbero passare da un obbiettivo del 2 per cento ad un obbiettivo effettivo, considerando le deviazioni in ogni verso da quell’obbiettivo come egualmente negative; questo in effetti rappresenterebbe un cambiamento nella condotta della Fed, dal momento che essa ha in pratica considerato il 2 per cento come un tetto. Ma non c’è alcunché, sulla agenda di nessuno, che assomigli alla politica economica di Abe, ad uno sforzo per incoraggiare l’economia attraverso mutamenti di fondo nelle aspettative di inflazione – almeno non ancora (dateci un decennio o due, e questo magari cambierà).
Dunque, se non c’è una grande distinzione sull’obbiettivo di inflazione, quale è la differenza? La risposta è che i falchi credono nella ‘immacolata inflazione’ – credono che un grande bilancio patrimoniale della Fed si possa tradurre in una crescita dell’inflazione anche in una economia depressa.
Non è chiaro come essi pensino che questo funzioni; chi, esattamente, alzerà i prezzi, a fronte di quel rallentamento dell’economia? In qualche modo, tuttavia, io credo che i falchi ritengano che stiamo attraversando un fenomeno dal lato dell’offerta; non credono realmente che stiamo soffrendo di una caduta della domanda e neanche sembra che pensino che il ‘limite inferiore di zero’ faccia alcuna differenza.
E il punto cruciale è che hanno avuto torto ad ogni passaggio, ma insistono nel chiedere in ogni modo una restrizione monetaria.
Cosicché i falchi non sono persone che vogliono fare quello che è necessario fare; sono persone con uno strano impulso a fare quello che non c’è bisogno di fare. E questa è la ragione per la quale abbiamo più bisogno di colombe alla Fed.
luglio 31, 2013
July 31, 2013, 6:31 am
Yellen/Summers and the Twilight of the VSPs
Whatever happens with the Fed succession — and boy, did Obama’s inner circle make a gratuitous mess of this one — it’s been one heck of a revealing episode, and not just because of the sexism on display, which started out with thinly-veiled talk of “gravitas” and eventually went into full-blown masculinity panic.
Incidentally, during the gravitas phase I found myself remembering this old passage by Garry Wills:
Movies about the Roman Empire often give us senators mincing about in togas. Actually, Rome’s leaders—roving the city with their gangs of clients and armed dependents—probably carried themselves more like “home boys” on MTV. A man who forswore such an entourage, like Cato of Utica, was more than once cudgeled in public and was constantly threatened with violence. Gravitas meant something more like throwing your weight around than like having a steady ballast.
Anyway, it’s also clear that Summers made some pretty big mistakes in his campaign. Neil Irwin points to his silence on monetary policy, which was supposed to be cagey but ended up looking slippery; John Cassidy points to his failure to offer any kind of mea culpa for past errors, which arguably was about preserving gravitas but ends up making him seem unreformed.
But why did Summers make these errors? In part because he is a whip-smart academic, the terror of the seminar room, who likes to play political operator — and as a political operator, he’s a great academic. But there is, I’d argue, a larger issue: Summers did not recognize the extent to which the political world has changed. He’s been carefully cultivating an image as a Very Serious Person, in a world where VSPness has gone from a source of cachet to being a liability on both right and left.
Think about it. Carefully cultivating a reputation for Seriousness does you no good on the right in a world where the Republican Party is more or less officially committed to crank economic doctrines, and where the GOP’s universally acknowledged intellectual leader is an obvious flimflam man.
Meanwhile, many if not all Democrats are well aware that the VSPs have been wrong about everything for the past decade or more, from the risks of financial deregulation to the fear of nonexistent bond vigilantes. Coming across as the return of Robert Rubin may have seemed savvy back in, say, 2008; it’s worse than useless now.
I suppose Summers might still get the job — but if so, it would be purely because the president is willing to spend a substantial amount of political capital on his behalf. The point is that behavior that was supposed to make Summers a safe choice has actually ended up making him unappealing to both sides.
Yellen/Summers ed il crepuscolo delle Persone Molto Serie
Qualsiasi cosa succeda con la successione alla Fed – e, ragazzi, il gruppo più ristretto attorno ad Obama ha proprio fatto un casino gratuito su questa faccenda – esso è stato un episodio singolarmente rilevante, e non solo a causa del sessismo [1] in bella mostra, che ha avuto il suo esordio con l’appena velato parlare di “spessore” ed alla fine è diventato un vero e proprio ‘panico mascolino’ [2].
Incidentalmente, durante la fase dello ‘spessore’ mi è capitato di ricordare questo vecchio passaggio di Garry Wills [3]:
“Le pellicole sull’Impero Romano spessi ci offrono senatori che concionano in toga. In effetti, alcuni capi di Roma – che vagabondavano con le loro bande di clienti e di dipendenti armati – è possibile che si presentassero più come gli “adolescenti casalinghi” delle serie televisive della MTV [4]. Un uomo che aborriva tali accompagnamenti era Catone di Utica, che più di una volta venne bastonato in pubblico ed era costantemente minacciato con la violenza. La ‘gravitas’ significava qualcosa che aveva più a che fare con il far mostra della propria imponenza che col dare un senso di solido fondamento.”
In ogni modo, è anche chiaro che Summers ha fatto alcuni errori piuttosto rilevanti nella sua campagna. Neil Irwin li indica nel suo silenzio sulla politica monetaria, che era parso essere guardingo ma ha finito coll’apparire evasivo; John Cassidy li indica nel suo non saper offrire alcuna autocritica per gli errori passati, che probabilmente aveva lo scopo di salvaguardare il proprio ‘spessore’ ma ha finito col dare l’immagine di un individuo incapace di correggersi.
Ma perché Summers [5] ha fatto questi errori? In parte perché è il genere dell’accademico ‘tagliente’ [6], il terrore delle aule da seminari, a cui piace giocare all’operatore politico – e come operatore politico, egli è un grande accademico. Ma c’è, direi, un tema più ampio: Summers non ha riconosciuto la misura in cui il mondo politico è cambiato. Egli ha scrupolosamente coltivato una immagine di Persona Molto Seria, in un mondo nel quale l’essere Persone Molto Serie da un segno di distinzione è diventato un disvalore, sia a destra che a sinistra.
Ci si rifletta. Coltivare una reputazione di Seriosità non vi aiuta a destra, in un contesto nel quale il Partito Repubblicano è più o meno impegnato in stravaganti dottrine economiche, e dove il leader intellettuale del Partito Repubblicano è universalmente riconosciuto come un evidente ‘sparaballe’ [7].
Nel frattempo, molti se non tutti i Democratici sono ben consapevoli che le Persone Molto Serie, nel passato decennio ed oltre, hanno avuto torto su ogni cosa, dai rischi della deregolamentazione finanziaria alle paure degli inesistenti ‘guardiani dei bonds’. Essere percepito come il nuovo Robert Rubin [8] poteva sembrare una cosa furba, diciamo, nel 2008; è una cosa peggio che inutile ai nostri giorni.
Io suppongo che Summers potrebbe ancora ottenere l’incarico – ma in questo caso, sarebbe puramente a seguito della volontà del Presidente di spendere un notevole capitale politico sul suo conto. Il punto è che la condotta che si pensava facesse si Summers una scelta sicura ha finito effettivamente per farlo diventare non attraente ad entrambi gli schieramenti.
[1] Naturalmente perché è in ballo anche una candidatura femminile, quella di Janet Yellen, attuale VicePresidente:
[2] Il riferimento è ad un articolo di ricostruzione delle varie posizioni, apparso di recente con il titolo “Paura di una Presidente femmina alla Fed”. L’articolo, tra l’altro, ricorda la posizione apparsa in un editoriale del Wall Street Journal, dove l’argomentazione è in un certo senso invertita (il timore deriverebbe dal fatto che ambienti ‘liberal’ ne starebbero facendo una questione di genere …) e dove si dà anche notizia di un esplicito forte sostegno alla candidatura della Yellen da parte di Nancy Pelosi.
[3] Garry Wills è un prolifico scrittore, giornalista e storico americano, esperto di storia della Chiesa cattolica.
[4] MTV è la denominazione di una canale televisivo che sta per “Musica Televisiva”, ma che in seguito si è specializzato in ‘reality shows’ indirizzati ad un pubblico adolescenziale.
[5] Lawrence Henry “Larry” Summers (New Haven, 30 novembre 1954) è un politico, economista e accademico statunitense, direttore del Consiglio Economico Nazionale dal 2009 al 2010.
Vincitore della John Bates Clark Medal nel 1993 per i suoi studi macroeconomici, è stato Segretario al Tesoro degli Stati Uniti per l’ultimo anno e mezzo della presidenza Clinton e rettore dell’Università di Harvard dal 2001 al 2006. Summers è nipote dei celebri economisti Paul Samuelson e Kenneth Arrow (Wikipedia)
[6] Come si noterà, questa traduzione è piena di divertenti passaggi complicati. “Whip-smart” significa letteralmente “frusta intelligente”. Ovvero, dice UrbanDictionary, “come una frusta schiocca e schianta ….così qualcuno che è ‘whip-smart’ e capace di venir fuori in modo succinto con risposte molto dirette”.
[7] Letteralmente “Uomo Fandonia” (etichetta a suo tempo appiccicata da Krugman a Paul Ryan, se non sbaglio).
[8] Robert Rubin (New York, 29 agosto 1938) è un politico statunitense. È stato il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti tra il 1995 e il 1999 durante il primo e il secondo mandato dell’amministrazione Clinton.
Prima del suo mandato governativo ha trascorso ventisei anni alla Goldman Sachs, dove è stato membro del consiglio di amministrazione e dove ha ricoperto il ruolo di Co-Presidente dal 1990 al 1992.
Negli anni che sono seguiti al suo impegno di governo, Robert Rubin è stato Direttore di Citigroup dove ha anche ricoperto temporaneamente il ruolo di Presidente da novembre a dicembre 2007. Il 9 gennaio 2009 Citigroup ha annunciato il suo esonero dall’incarico per le deludenti performance durante la sua direzione.
luglio 30, 2013
July 30, 2013, 9:04 am
Over at FT Alphaville, Cardiff Garcia says the right things about the Yellen affair:
Politics really isn’t our thing, but more believable for now is simply that the White House didn’t do its homework, failed to anticipate the backlash, and is now clumsily trying to figure out how to handle it.
The politics is unavoidable, of course. But we would just emphasise again that strictly on the merits, you hardly need to make an anti-Summers case to prefer Yellen.
One does have the sense that economic policy discussion in the WH has grown dangerously insular; just about anyone outside, if asked, could have told them what a mess they’d make by floating the idea of choosing Summers over Yellen. But they seemed blissfully unaware of what was coming.
L’andare a tentoni sul caso Fed
Su FT Alphaville, Cardiff Garcia dice cose giuste sull’ ‘affare Yellen’:
“In realtà la politica non è il nostro pane quotidiano, ma per il momento la cosa più credibile è semplicemente che la Casa Bianca non abbia fatto i suoi compiti a casa, non sia riuscita a prevedere una reazione fortemente negativa, ed ora stia goffamente cercando di capire come gestire la faccenda.”
La politica, ovviamente, è inevitabile. Ma noi vorremmo ancora dare rilievo al fatto che, strettamente dal punto di vista del merito, non c’è alcun bisogno di trasformare la preferenza per la Yellen in un caso anti Summers.
Si ha proprio l’impressione che il dibattito di politica economica alla Casa Bianca si evolva in modi pericolosamente angusti; se richiesti, praticamente tutti fuori da là li avrebbero avvertiti del casino nel quale si sarebbero messi mettendo in giro l’idea di scegliere Summers sulla Yellen. Ma sono apparsi beatamente inconsapevoli di quanto ne sarebbe derivato.