Blog di Krugman

Il grande spavento delle pensioni (21 luglio 2013)

 

 

July 21, 2013, 5:18 am

The Great Pension Scare

OK, this is quite amazing: Dean Baker catches the WaPo editorial page claiming that we have $3.8 trillion in unfunded state and local pension liabilities. Say it in your best Dr. Evil voice: THREE POINT EIGHT TRILLION DOLLARS. Except the study the WaPo cites very carefully says that it’s $3.8 trillion in total liabilities, not unfunded; unfunded liabilities are only $1 trillion.

I’ll be curious to see how the paper’s correction policy works here.

But how big is that $1 trillion anyway? It still sounds like a big number, doesn’t it? Dean tries to compare it with projected GDP, which is one way to scale it. Here’s another.

You see, the Boston College study doesn’t just estimate assets and liabilities; it also estimates the Annual Required Contribution, defined as

normal cost – the present value of the benefits accrued in a given year – plus a payment to amortize the unfunded liability

And it compares the ARC with actual contributions.

According to the survey, the ARC is currently about 15 percent of payroll; in reality, state and local governments are making only about 80 percent of the required contributions, so there’s a shortfall of 3 percent of payroll. Total state and local payroll, in turn, is about $70 billion per month, or $850 billion per year. So, nationwide, governments are underfunding their pensions by around 3 percent of $850 billion, or around $25 billion a year.

A $25 billion shortfall in a $16 trillion economy. We’re doomed!

OK, there are some questions about the accounting, mainly coming down to whether pension funds are assuming too high a rate of return on their investments. But even if the shortfall is several times as big as the initial estimate, which seems unlikely, this is just not a major national issue.

So, why is it being hyped? Do I even need to ask?

 

Il grande spavento delle pensioni

 

Va bene, questa è proprio incredibile: Dean Baker sorprende la pagina editoriale del Washington Post che sostiene che noi abbiamo 3 mila e 800 miliardi di dollari di passività scoperte in materia di pensioni, da parte dello Stato e delle comunità locali.  Ditelo con la vostra migliore voce da Dottor Male [1]: TREMILA PUNTO OTTOCENTO MILIARDI DI DOLLARI. A parte il fatto che lo studio che il WaPo [2] cita molto scrupolosamente dice che 3 mila ottocento miliardi di dollari sono le passività totali, non quelle prive di copertura; mentre le passività scoperte sono soltanto mille miliardi.

Sono curioso di vedere come in questo caso funzionerà la politica della correzione.

Ma, in ogni caso, quanto è grande la somma di mille miliardi di dollari? Sembra ancora un gran numero, non è così? Dean prova a confrontarlo con il PIL previsto, che è un modo per relativizzarlo. Eccone un altro.

Dovete sapere che lo studio del Boston College [3] non stima soltanto gli attivi e le passività; esso stima anche il Contributo Annuale Richiesto, definito come:

“il normale costo, ovvero il valore contingente dei sussidi maturati in un determinato anno, più una somma necessaria ad ammortizzare le passività scoperte”.

Ed esso confronta tale CAR con le contribuzioni effettive.

Secondo lo studio, il CAR è attualmente circa il 15 per cento dell’ammontare delle retribuzioni; in realtà, lo Stato e le comunità locali stanno mettendo solo l’80 per cento dei contributi richiesti, c’è dunque un ammanco del 3 per cento dell’ammontare delle retribuzioni. Tale ammontare totale dello Stato e delle comunità locali, a sua volta, sono circa 70 miliardi di dollari al mese, o 850 miliardi di dollari all’anno. Dunque, per l’intera nazione, i governi stanno sottofinanziando le loro pensioni per circa il 3 per cento di 850 miliardi di dollari, vale a dire per 25 miliardi di dollari all’anno.

25 miliardi di dollari di ammanco in una economia di 16 milia miliardi di dollari. Siamo spacciati!

E’ vero, ci sono alcune domande sulla contabilità, che principalmente convergono sul punto se i fondi pensionistici stiano assumendo tassi di rendimento troppo elevati sui loro investimenti. Ma anche se l’ammanco fosse alcune volte superiore alla stima iniziale, il che sembra improbabile, questa non è proprio una questione prioritaria a livello nazionale.

Dunque, perché viene ingigantita? C’è proprio bisogno che lo chieda?


[1] Il Dottor Male (nell’originale inglese Dr. Evil) è il diabolico e spietato personaggio delle serie di film basati sulle avventure del fotografo ed investigatore britannico Austin Powers:

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[2] Come è chiaro, è la sigla per Washington Post.

[3] Boston College (in latino, «collegium bostoniense», sigla BC) è un’università privata fondata nel 1863 e ubicata a circa 10 km. dal centro di Boston in Massachusetts negli Stati Uniti. Conta 15.000 studenti. BC fa parte dell’associazione delle università gesuite (AJCU), l’associazione delle 28 università che la Compagnia di Gesù possiede negli Stati Uniti.

 

Orwell, la Cina e il sottoscritto (20 luglio 2013)

luglio 20, 2013

 

 

July 20, 2013, 12:47 pm

Orwell, China, and Me

I saw that some commenters were puzzled by my throwaway reference, in the context of the Chinese Ponzi wall-hitting bicycle, to the fascist octopus singing its swan song. But that came, of course, from George Orwell’s Politics and the English Language, which anyone who cares at all about either politics or writing should know by heart.

And it occurs to me that the essay is also relevant to a complaint I’ve been getting from a few people, to the effect that I’m being too snide about the Chinese regime. Now first of all, I’m snide about lots of governments, very much including my own — and with reason; nobody has the right to be exempt from deserved ridicule.

But also, folks, while the current leaders of China may not be bad men — I really have no idea — the fact remains that we’re talking about a dictatorship, and one that by all accounts enables epic corruption too. You may say that yes, but look at the economic achievements; but Orwell got there first:

Consider for instance some comfortable English professor defending Russian totalitarianism. He cannot say outright, “I believe in killing off your opponents when you can get good results by doing so.” Probably, therefore, he will say something like this:

“While freely conceding that the Soviet regime exhibits certain features which the humanitarian may be inclined to deplore, we must, I think, agree that a certain curtailment of the right to political opposition is an unavoidable concomitant of transitional periods, and that the rigors which the Russian people have been called upon to undergo have been amply justified in the sphere of concrete achievement.”

Happily, the current Chinese government isn’t that bad; but “not as bad as Stalin” is not, exactly, an inspiring slogan.

 

Orwell, la Cina e il sottoscritto

 

Ho visto che alcuni commentatori sono rimasti perplessi a fronte del mio riferimento buttato un po’  là alla piovra fascista che intona il suo canto del cigno, nel contesto della bicicletta cinese alla Ponzi che va a toccare il fondo. Ma esso deriva, come è evidente, da “La politica e la lingua inglese” di George Orwell, che tutti coloro che si occupano sia di politica che di scrittura dovrebbero conoscere a memoria.

E mi viene in mente che il saggio è anche rilevante per una rimostranza che sto ricevendo da poche persone, riguardo al fatto che sarei troppo beffardo a proposito del regime cinese. Ora anzitutto, io sono beffardo con una quantità di Governi, compreso a pieno titolo anche il mio – e con ragione; nessuno ha il diritto di essere esentato da una meritata derisione.

Ma se anche, cari miei, gli attuali leaders della Cina non fossero persone cattive – davvero io non ne ho idea – resta il fatto che stiamo parlando di una dittatura, a detta di tutti anche capace di una corruzione epica. Potete dire che va bene, ma si guardino i risultati economici; ma si passi prima da Orwell:

“Si consideri ad esempio qualche rassicurante professore di Inglese che difende il totalitarismo russo. Egli non può dire fuori dai denti: ‘Credo nella giustezza di ammazzare  i vostri oppositori se, così facendo, potete ottenere buoni risultati’. Probabilmente, di conseguenza, dirà qualcosa di questo genere:

‘Mentre si può apertamente ammettere che il regime sovietico mostri alcune peculiarità che un individuo umanitario può essere incline a deplorare, noi dobbiamo,  io penso, riconoscere che una certa decurtazione della opposizione politica della destra sia inevitabilmente connaturata ai periodi di transizione, e che i rigori ai quali gli individui in Russia sono stati  invitati a sottoporsi sono ampiamente giustificati nell’ambito delle concrete conquiste’ ”.

Ci si può rallegrare che l’attuale Governo cinese non sia così cattivo; ma “non così cattivi come Stalin” non è esattamente uno slogan confortante.

La irrecuperabile ottusità degli uomini della moneta-forte (20 luglio 2013)

luglio 20, 2013

 

July 20, 2013, 12:30 pm

The Unredeemable Opaqueness of the Hard-Money Men

Noah Smith notes, correctly, that the current position of the hard-money coalition — now that it seems, after many years of failure, to have mostly given up on predicting runaway inflation — involves a remarkable repudiation of an idea that one might have expected them to hold dear, namely that of efficient financial markets. But I think he fails to convey the full incoherence of the current hard-money position.

Let’s go back to my favorite line from Maestrodamus:

Today’s competitive markets, whether we seek to recognise it or not, are driven by an international version of Adam Smith’s “invisible hand” that is unredeemably opaque. With notably rare exceptions (2008, for example), the global “invisible hand” has created relatively stable exchange rates, interest rates, prices, and wage rates.

The first part of that quote actually conveys pretty well the common creed of all the anti-interventionists out there: the invisible hand is out there, and it knows what it’s doing. Even if you think it looks as if markets are way off, you are a mere mortal who cannot understand the market’s wisdom, which is “unredeemably opaque”. It’s not so much that the market is always right — although “with notably rare exceptions” it is — as that economists and government officials cannot possibly second-guess the market in any useful way.

And yet, you must also believe that this wise market, guided by the invisible hand, can be sent wildly off course if the central bank prints too many pieces of green paper; and not just that, you have to believe that it can be sent wildly off course in a predictable direction.

This contradiction has always been a core peculiarity of the Austrians; but now it is shared by a wide spectrum of right-leaning economists.

Some economists, like Antonio Fatas, demand to see the model that produces such results. But I really think you need to understand this in terms of backward induction. First comes the answer: government action of any kind to fight a slump is bad. Then the search is on for a story to justify that answer, and it really doesn’t matter if the story is inconsistent with everything else you’ve said. (Surely the financial stability argument should lead one to demand very strong bank regulation, and also a highly activist monetary policy to correct those flighty, unreliable markets with their predictable errors).

All in all, we are continuing to learn a lot from this slump, not just about how the economy works, but about how many economists work. Unfortunately, none of the news is good.

 

La irrecuperabile ottusità degli uomini della moneta-forte

 

Noah Smith osserva, correttamente, come della attuale posizione della coalizione della moneta-forte – ora che sembra, dopo molti anni di fallimenti, che abbiano in gran parte rinunciato alla previsione di una inflazione fuori controllo – faccia parte un considerevole ripudio di una idea che ci si sarebbe aspettati avessero a cuore, vale a dire quella dei mercati finanziari efficienti. Ma io penso che egli non riesca ad esprimere la piena incoerenza della attuale posizione dei sostenitori della moneta-forte.

Torniamo alla mia frase favorita di “Maestradamus” [1]:

“I mercati competitivi odierni, che lo si voglia riconoscere o meno, sono guidati da un versione internazionale della “mano invisibile” di Adam Smith che è irrimediabilmente densa [2]. Con eccezioni notevolmente rare (il 2008, ad esempio) , la “mano invisibile” globale ha creato tassi di cambio, tassi di interesse, prezzi e salari  relativamente stabili.” 

La prima parte di quella citazione esprime in effetti abbastanza bene il credo comune di tutti gli antiinterventisti in ogni dove: la mano invisibile è dappertutto e sa quello che sta facendo. Anche quando credi che i mercati siano lontani, sei un semplice mortale che non può conoscere la saggezza del mercato, che è “irrimediabilmente denso”. Non si tratta solo del fatto che il mercato ha sempre ragione – per quanto “con notevolmente rare eccezioni” ce l’abbia – quanto del fatto che gli economisti ed i dirigenti dello Stato non possono in nessun modo mettere in discussione il mercato in un qualsiasi modo utile.

E tuttavia, devi anche credere che questo saggio mercato, guidato dalla mano invisibile, può finire completamente fuori strada se la banca centrale stampa troppe banconote verdi; e non solo quello, devi credere che esso possa essere spedito fuori strada in una direzione prevedibile. Questa contraddizione è sempre stata una peculiarità centrale degli “Austriaci” [3]; ma ora essa è condivisa da un ampio spettro di economisti che simpatizzano per la destra.

Alcuni economisti, come Antonio Fatas, chiedono che sia esibito il modello che produce tali risultati. Ma io penso che in realtà la cosa debba essere intesa nei termini di una induzione retroattiva. Prima di tutto viene la risposta: l’azione di ogni genere dello Stato per combattere le recessione è negativa. Poi viene la ricerca di un racconto che giustifichi quelle risposta, e in realtà non conta se il racconto sia incoerente con ogni altra cose che si è detta (sicuramente l’argomento della stabilità finanziaria dovrebbe portare a chiedere una regolamentazione bancaria molto rigida, ed anche una politica monetaria assai attiva per correggere quei mercati volubili ed inaffidabili, con i loro errori prevedibili).

Comunque sia, stiamo continuando ad imparare molto da questa crisi, non solo a proposito di come funziona l’economia, ma anche di come funzionano molti economisti. Sfortunatamente, in nessun caso di tratta di buone notizie.


[1] Ovvero, Alan Greenspan. Vedi post del 17 luglio 2013.

[2] Ripeto la nota al post del 17 luglio, ovvero penso che il senso sia quello di una realtà talmente ‘compatta’ da non consentire alcun dubbio (interpretazione, mi pare, stavolta avvalorata dalla spiegazione nel testo). Nel titolo, invece si preferisce attribuire al termine “opaqueness” l’altro possibile significato di “ottusità”; è evidente l’ironia del gioco di parole.

[3] Vedi per “Austrian” le note sulla traduzione.

Quanto dovremmo preoccuparci di uno shock cinese? (20 luglio 2013)

luglio 20, 2013

 

July 20, 2013, 5:44 am

How Much Should We Worry About A China Shock?

Suppose that those of us now worried that China’s Ponzi bicycle is hitting a brick wall (or, as some readers have suggested, a BRIC wall) are right. How much should the rest of the world worry, and why?

I’d group this under three headings:

1. “Mechanical” linkages via exports, which are surprisingly small.

2. Commodity prices, which could be a bigger deal.

3. Politics and international stability, which involves some serious risks.

So, on the first: this is what many people immediately think of. China’s economy stumbles; China therefore buys less from the rest of the world; and the result is a global slump. Or, maybe not so much.

Some quick, rough, but I think useful math: In 2011, the combined GDP of all the world’s economies not including China was slightly over $60 trillion. Meanwhile, Chinese imports of goods and services were about $2 trillion, or around 3 percent of the rest of the world’s GDP.

Now suppose that China has a slowdown of 5 percent relative to trend. Imports would fall more than this; typical estimates of the “income elasticity” of imports (the percentage change from a 1 percent change in GDP, other things equal) are around 2. So we could be looking at a 10 percent fall in Chinese imports — an adverse shock to the rest of the world of one-tenth of 3 percent,or 0.3 percent of GDP. Not nothing, but not catastophic.

And even this is arguably an exaggeration, because a significant part of China’s imports are components for its exports,and don’t depend on Chinese domestic demand.

As I said, then, the mechanical links through trade flows are relatively small, although they could bulk much larger for some of China’s neighbors (but would be smaller for the United States).

Commodity prices are a potentially bigger story. China is a major consumer of raw materials — for example, about 11 percent of world oil consumption. And because the supply and demand of commodities tend to be relatively unresponsive to prices in the short run, a sharp drop in Chinese demand could lead to sharp falls in commodity prices. So the Ponzi bicycle shock could be a bigger deal for countries that sell raw materials, whether they sell to China or not, than it is to China exporters.

Finally, politics and international relations. I am obviously no kind of expert here. But it’s obvious, first, that China’s political regime is remarkable, even given the annals of history, for the hypocrisy of its position: officially it’s building the socialist future,in practice it’s presiding over a crony capitalist Gilded Age. Where, then, does the regime’s legitimacy come from? Mainly from economic success. Let that success falter,and then what?

And if you really want to get nervous, think about what cynical governments trying to distract their populace from domestic failures have often done in the past. Saber-rattling over some islands somewhere, anyone?

No particular bottom line here, except that you probably want to focus much more on the indirect effects than on the direct export multiplier.

Oh, and a curious aside. Of course I’ve been reading Michael Pettis, who has been making many of the points I’ve raised for some time. But I’ve had a bit of trouble accessing his work in the past couple of days; as of this morning, I get this:

Consider all jokes about Chinese corruption, stimulus, etc.made.

 

Quanto dovremmo preoccuparci di uno shock cinese?

 

Supponiamo che abbiano ragione quelli tra noi che oggi sono preoccupati che la “bicicletta Ponzi” della Cina vada a sbattere contro un muro (oppure, come alcuni lettori hanno suggerito, che il muro riguardi tutti i paesi  BRIC [1]). Quanto dovrebbe preoccuparsi il resto del mondo, e perché?

Raggrupperei (le risposte) sotto tre titoli:

1 – Connessioni “meccaniche” per il tramite delle esportazioni, che sarebbero sorprendentemente modeste;

2 – Prezzi delle materie prime, che potrebbero essere una faccenda più seria;

3 – Stabilità politica ed internazionale, che includerebbe alcuni rischi seri.

Dunque, quanto al primo: questo è quello a cui molte persone pensano immediatamente. L’economia della Cina fa un passo falso; di conseguenza la Cina acquista di meno dal resto del mondo; e il risultato è una crisi globale. Ebbene, non è detto ….

Alcuni conti, rapidi, rozzi ma penso utili: nel 2011 il PIL complessivo di tutte le economie del  mondo, esclusa la Cina, fu leggermente superiore ai 60 mila miliardi di dollari. Nel frattempo, le importazioni cinesi in beni e servizi furono attorni ai 2 mila miliardi di dollari, ovvero circa il 3 per cento del PIL del resto del mondo.

Ora, si supponga che la Cina abbia un rallentamento del 5 per cento  in relazione al suo trend. Le importazioni cadrebbero maggiormente; le stime consuete sulla “elasticità del reddito” delle importazioni (il cambiamento percentuale derivante da un mutamento dell’1 per cento del PIL, fermi gli altri fattori) sono attorno a 2. Dunque dovremmo assistere, con una caduta del 10 per cento delle importazioni cinesi, ad uno shock negativo per il resto del mondo pari ad un decimo del 3 per cento, ovvero dello 0,3 per cento del PIL. Non sarebbe niente, ma non catastrofico.

E persino questa sarebbe probabilmente una esagerazione, perché una parte significativa delle importazioni della Cina sono componenti delle sue esportazioni, e non dipendono dalla domanda interna cinese.

Come ho detto i collegamenti meccanici tra i flussi commerciali sono relativamente piccoli, sebbene essi potrebbero crescere in modo più significativo per alcuni paesi vicini alla Cina (ma sarebbero più piccoli per gli Stati Uniti).

I prezzi delle materie prime sarebbero una storia potenzialmente più grande. La Cina è un importante consumatore di materie prime – ad esempio, circa l’11 per cento del consumo mondiale di petrolio.  E poiché l’offerta e la domanda di materie prime tendono ad essere relativamente insensibili nel breve periodo ai prezzi, una brusca caduta nella domanda cinese potrebbe portare a brusche cadute nei prezzi delle materie prime. Dunque la “bicicletta Ponzi” potrebbe costituire un problema serio per i paesi che vendono materie prime, che essi vendano o meno alla Cina, più di quanto non sarebbe per coloro che esportano in Cina [2].

Infine, la politica e le relazioni internazionali. In questo caso, ovviamente, non ho alcun genere di competenza. Ma è evidente che, in primo luogo, il regime politico cinese è notevole, persino considerati gli annali della storia, per l’ipocrisia della sua posizione: ufficialmente sta costruendo il futuro socialista, in pratica è ben insediato in un’ Età dell’Oro di un capitalismo clientelare. Da dove proviene, dunque, la legittimazione del regime? Principalmente dal successo economico. Se essa vacilla, cosa accadrà dopo?

E se per davvero volete diventare nervosi, pensate a quello che hanno spesso fatto nel passato i governi che cinicamente cercano di distrarre la loro popolazione dai fallimenti interni. Magari, un tintinnare di sciabole su qualche isola da qualche parte? [3]

In questo caso non c’è alcuna morale finale, a parte il fatto che probabilmente vorreste concentravi maggiormente sugli effetti indiretti, piuttosto che su quelli diretti del moltiplicatore delle esportazioni [4].

Infine, un’ultima digressione. Naturalmente, stavo leggendo Michael Pettis [5], che si è occupato per un po’ di tempo di molti temi che io ho sollevato. Ma negli ultimi due giorni ho avuto qualche problema per accedere sl suo lavoro; come questa mattina, quando mi sono trovato dinanzi a questa pubblicità …. [6]

Si considerino tutti gli scherzi che si possono fare sulla corruzione cinese, sullo ‘stimulus’ etc.


[1] Brasile, Russia, India e Cina.

[2] Ovvero, più di quello che è stato considerato al primo punto, come conseguenza di una diminuzione delle importazioni cinesi.

[3] Se non capisco male, il riferimento potrebbe essere a tentazioni del Giappone di Shinzo Abe.

[4] Per il concetto di “multiplier” vedi le note finali della traduzione.

[5] Michael Pettis è docente alla Guanghua School of Management della Università di Pechino, dove è specializzato sui mercati finanziari della Cina. Dal 1992 al 2001 ha insegnato alla Columbia University. E’ anche membro di una società finanziaria sino-francese con sede in Shanghai.

 

[6] Nel testo compare a quel punto questa curiosa inserzione pubblicitaria, che offre a Krugman l’estro per una battuta sullo ‘stimulus’ !

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La successione alla Fed (19 luglio 2013)

luglio 19, 2013

 

July 19, 2013, 5:57 pm

The Fed Succession

Rumors flying all over; supposedly it’s between Janet Yellen, the obvious choice, and Larry Summers, with totally unsubstantiated claims that LS’s star is rising. So I guess that, despite an intense desire to stay out of the whole thing (I know and admire both players), I need to say something — not an endorsement, but some sense of how I and others I talk to see this.

First of all, what do we need in a Fed chair? Above all, a committed dove — someone who will not succumb to the pressure to tighten policy too soon, and almost equally important, someone who will be seen by investors as resistant to this temptation. We’ve just seen how much damage even a hint of Fed hawkishness can do; it’s really critical to not follow the far worse step of making an appointment that gives the wrong signal.

As it happens, both Janet and Larry have good credentials on those grounds, at least in terms of what they’ve said in recent years.

Beyond that, you need someone who can be effective at bringing the rest of the Fed along — but that’s a bit of a mysterious quality. Ben Bernanke has been far better at that than one might have expected from an academic. Looking forward, which is better: someone who has already demonstrated an ability to get along with her Fed colleagues, or someone who has a reputation as a tough guy but also a reputation for raising hackles?

And then there’s the question of what kind of signal the appointment would send. Appointing Yellen — the first woman Fed chair, and one with utterly unquestioned credentials — would be an evidently historic act. If it’s Summers, you know what everyone will bring up: his pro-deregulation stance of the 1990s.

So what we have here are two highly qualified candidates, head and shoulders above anyone else I’ve heard mentioned and inconceivably better than the men who might have been in contention if that guy who ran with Paul Ryan had won. But if the final choice isn’t Janet Yellen, I think the president is going to have to offer a very good explanation of why not, or face a lot of grief from people who want to think the best of his administration.

 

La successione alla Fed

 

Le voci si rincorrono dappertutto; sembra che la scelta sia tra Janet Yellen, la soluzione naturale, e Larry Summers, con pretese del tutto prive di riscontri secondo le quali quest’ultimo sarebbe la stella ascendente. Dunque, suppongo che, nonostante il forte desiderio di starmene fuori dall’intera faccenda (conosco e stimo entrambi i protagonisti), sia necessario dire qualcosa – non un appoggio ufficiale, ma qualche sensazione su come la vediamo io egli altri con cui parlo.

Prima di tutto, di cosa abbiamo bisogno sullo scranno della Fed? Soprattutto, di una colomba impegnata – qualcuno che non ceda alla spinta per una troppo rapida restrizione della politica (monetaria) e, egualmente importante, qualcuno che sia visto dagli investitori come capace di resistere a questa tentazione. Abbiamo appena visto quanto danno può fare anche solo un cenno di sostegno alla linea restrittiva; è realmente fondamentale non assistere all’estremo passo falso del dare un appuntamento che fornisca il segnale sbagliato.

Per come le cose stanno, sia Janet che Larry per questi aspetti hanno buone credenziali,  almeno per quanto essi hanno affermato in anni recenti.

Oltre a ciò, c’è bisogno di qualcuno che possa essere efficace nel portarsi dietro il resto della Fed – ma questa è una attitudine un po’ misteriosa. Ben Bernanke è stato molto migliore di quanto ci si sarebbe aspettati da un accademico. Guardando avanti, cosa sarebbe meglio: qualcuna che ha già dimostrato una capacità di andare d’accordo con i suoi colleghi della Fed, oppure qualcuno che ha la reputazione di un individuo duro ma anche la reputazione di perdere facilmente la pazienza?

E poi c’è la questione di quale genere di segnale dovrebbe venire da quella scadenza. Nominando la Yellen – la prima presidentessa della Fed, ed una le cui credenziali sono completamente indiscutibili – sarebbe evidentemente un atto storico. Se fosse Summers, si sa quello che direbbero tutti: la sua posizione a favore della deregolamentazione negli anni ’90.

Dunque, abbiamo in questo caso due candidati altamente qualificati, di gran lunga superiori a tutti gli altri che ho sentito ipotizzare ed enormemente migliori degli uomini che si sarebbero contesi l’incarico se quel tizio che ha corso alle elezioni con Paul Ryan avesse vinto [1]. Ma se la scelta finale non fosse quella di Janet Yellen, penso che il Presidente dovrebbe un’ottima spiegazione sul perché no, e fare i conti con un bel po’ di insoddisfazione da parte delle persone che vogliono poter pensare il meglio della sua amministrazione. [2]


[1] Ovvero, Mitt Romney, ironicamente espresso con il nome del suo aspirante vicepresidente.

[2] Vorrei notare come questa noterella sia in perfetto stile krugmaniano. Si tratta di candidati intellettualmente ‘amici’, ma tutto è caratterizzato da una assoluta franchezza ed anche da una piuttosto ostentata e ironica ruvidezza (egli è amico e  quasi-estimatore di entrambi i candidati, ma, alla fine, se non passasse la Yellen sarebbe inspiegabile!) Un po’ all’opposto della consueta “captatio benevolentiae” che si userebbe da noi per un posto di tale prestigio ….

La bicicletta di Ponzi della Cina sta andando a sbattere contro un muro di mattoni (19 luglio 2013)

luglio 19, 2013

 

 

 

July 19, 2013, 9:26 am

China’s Ponzi Bicycle Is Running Into A Brick Wall

In this morning’s session, I found myself using various metaphors to explain pretty much the same points I made in today’s column.

One of them was that in a way, China’s low-consumption high-investment economy was a kind of Ponzi scheme. Chinese businesses were investing furiously, not to build capacity to serve consumers, who weren’t buying much, but to serve buyers of investment goods — in effect, investing to take advantage of future investment, adding even more capacity. Would there ever be final buyers for what all this capacity could produce? Unclear. So, a kind of Ponzi scheme.

Also, my worries are that China doesn’t know how to slow down — that it’s a bicycle economy that falls over if it stops moving forward.

And of course I’ve argued that running out of peasants creates a wall.

So, the Chinese Ponzi bicycle is running into a brick wall. Also, the fascist octopus has sung its swan song.

Still not sure I’m living up to the world’s worst sentence, however.

 

La bicicletta di Ponzi della Cina sta andando a sbattere contro un muro di mattoni

 

Nella sessione di stamane, mi sono ritrovato a utilizzare varie metafore praticamente gli stessi punti che ho avanzato nell’articolo odierno.

Una di esse riguardava il modo in cui l’economia cinese basata sui bassi consumi e su alti investimenti fosse una specie di “schema Ponzi” [1]. L’economia cinese è consistita nell’investire furiosamente, non per dotarsi di una capacità produttiva per servire i consumatori, che non acquistavano granché, ma per servire gli acquirenti di beni di investimento – in effetti investendo per avvantaggiarsi di futuri investimenti, sommando una capacità produttiva anche maggiore. Ci sarebbero stati gli acquirenti finali per tutto ciò che questa capacità produttiva avrebbe prodotto? Non è chiaro. Dunque, una specie di schema Ponzi.

Inoltre, le mie preoccupazioni sono che la Cina non sappia come rallentare, che essa sia una economia della bicicletta [2] che inciampa se smette di muoversi in avanti.

E naturalmente ho sostenuto che quell’esaurimento della forza lavoro agricola crea un muro.

Dunque, la bicicletta cinese di Ponzi sta andando a sbattere in un muro di mattoni. Per giunta, la piovra fascista ha intonato il suo canto del cigno.

Non sono ancora sicuro, tuttavia, di essere in sintonia con la peggiore condanna del mondo [3].


[1] Lo schema Ponzi è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi “investitori”, a loro volta vittime della truffa. La tecnica prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano negli Stati Uniti che divenne famigerato per avere applicato una simile truffa su larga scala nei confronti della comunità di immigrati prima e poi in tutta la nazione. Ponzi non fu il primo a usare questa tecnica, ma ebbe tanto successo da legarvi il suo nome. Con la sua truffa coinvolse infatti 40 000 persone e, partendo dalla modica cifra di due dollari, arrivò a raccoglierne oltre 15 milioni.

Lo schema di Ponzi si è sviluppato nel tempo in varianti più complesse, pur mantenendo la stessa base teorica e continuando a sfruttare l’avidità delle persone. Lo schema di Ponzi è tornato alla ribalta internazionale il 12 dicembre 2008, a causa dell’arresto di Bernard Madoff, ex presidente del NASDAQ e uomo molto famoso nell’ambiente di Wall Street. L’accusa nei sui confronti è di aver creato una truffa compresa tra i 50 e i 65 miliardi di dollari (una delle maggiori della storia degli Stati Uniti) proprio sul modello dello schema di Ponzi, attirando nella sua rete molti fra i maggiori istituti finanziari mondiali. Il 12 marzo 2009 Bernard Madoff si dichiarò colpevole di tutti gli undici capi d’accusa a lui ascritti e fu condannato a 150 anni di carcere (Wikipedia).

Ed ecco il nostro connazionale, in una quasi sorridente fotografia carceraria:

Ponzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] Di recente di intende per “economia della bicicletta” una variante di un modello economico di tipo ecologico, capace di prestazioni importanti sotto i profili della salute e della riduzione dell’inquinamento ed anche di nuove forme di consumo equilibrato.

[3] Interpreto in questo modo “ I’m living up to …”, che più letteralmente sarebbe “soddisfare (una aspettativa, un obbligo, un principio”), ovvero essere all’altezza. Il link, infatti, è con l’articolo di questi giorni sul NYT, che si conclude con il dubbio che, preoccupati sono ad ieri della competizione cinese, oggi ci si debba preoccupare dei guai della Cina. Quanto al fatto che la Cina venga definita “piovra fascista”, per chi lo ritenesse un po’ semplicistico, una spiegazione viene fornita nel successivo post del 20 luglio dal titolo “Orwell, la Cina e il sottoscritto”. .

Le profezie di Maestradamus (17 luglio 2013)

luglio 17, 2013

 

July 17, 2013, 5:29 pm

The Prophecies of Maestrodamus

Oh, my. Brad Delong recalls to us Alan Greenspan’s lamentable 2010 op-ed on US debt and deficits. What’s notable about the piece is not just that Greenspan was wrong about everything that would happen over the next three years; he’s actually part of a substantial club on that point. Nor, I guess, is it notable that, to all appearances, he has learned nothing at all from his predictive failures — that the fact that he was wrong about everything, while the Keynesians got almost everything right, has made no dent in his faith that he has The Truth. Again, that makes him part of a substantial club.

Nor, even, does his piece gain all that much distinction by being paired with a later piece that contained an instant internet classic:

Today’s competitive markets, whether we seek to recognise it or not, are driven by an international version of Adam Smith’s “invisible hand” that is unredeemably opaque. With notably rare exceptions (2008, for example), the global “invisible hand” has created relatively stable exchange rates, interest rates, prices, and wage rates.

See the comments section of the linked piece for variations on the “notably rare exceptions” trope; e.g.,

“With notably rare exceptions, Newt Gingrich is a loyal and faithful husband.”

No, what really distinguishes Greenspan here are two things. First, his reaction to the fact that even in 2010 it was obvious that markets weren’t performing according to his predictions:

This is regrettable, because it is fostering a sense of complacency that can have dire consequences…

My analysis can’t be wrong, the markets are just misbehaving!

And, above all, the fact that for many years this guy was regarded as the Maestro, a man of almost supernatural wisdom and judgment.

 

Le profezie di Maestradamus[1]

 

Oh, Dio mio. Brad DeLong ci ricorda il deplorevole commento di Alan Greenspan del 2010 sul debito e i deficit degli Stati Uniti. Quello che è notevole di quell’articolo non è soltanto che egli abbia avuto torto su ogni cosa che sarebbe accaduta nei tre anni successivi; per quell’aspetto egli fa in effetti parte di una significativa comitiva. Né, io credo, sia notevole il fatto che egli non abbia appreso niente da tutte le sue fallite predizioni – che il fatto di aver avuto torto su ogni aspetto, mentre i Keynesiani hanno quasi avuto ragione su tutto, non abbia spostato di una virgola la sua fiducia di possedere La Verità. Anche in questo caso egli fa parte  di un gruppo rilevante.

Il suo articolo non acquista neppure una particolare distinzione una volta che venga accoppiato ad un precedente pezzo che conteneva un fulminante classico di internet:

“I mercati competitivi odierni, che lo si voglia riconoscere o meno, sono guidati da un versione internazionale della “mano invisibile” di Adam Smith che è irrimediabilmente densa [2]. Con eccezioni notevolmente rare (il 2008, ad esempio) , la “mano invisibile” globale ha creato tassi di cambio, tassi di interesse, prezzi e salari  relativamente stabili.”  

Si veda la sezione  dei commenti all’articolo in connessione per variazioni sul tema delle “notevolmente rare eccezioni”; ad esempio:

Con notevolmente rare eccezioni, Newt Gingrich [3]  è un marito devoto e  fedele.”

No, quello che in questo caso veramente distingue Greenspan, sono due cose. La prima, la sua reazione al fatto che anche nel 2010 è stato evidente che i mercati non si venivano comportando secondo le sue previsioni:

“Questo è deplorevole, perché sta incoraggiando un senso di compiacimento che può avere conseguenze terribili …”

La mia analisi non può essere sbagliata, sono solo i mercati che si comportano male!

E soprattutto il fatto che per molti anni questo individuo è stato considerato come il Maestro, un uomo di una saggezza e di una capacità di giudizio quasi soprannaturale.



[1] Il nome è adattato all’appellativo di “Maestro”, in italiano, con il quale ci si riferiva a Greenspan, almeno prima del disastro finanziario del 2008.

[2] Penso che il senso sia questo, di una realtà talmente ‘compatta’ da non consentire alcun dubbio. Naturalmente, la parte comica è quella relativa alle “notevolmente rare eccezioni”.

[3] Uomo politico repubblicano, ‘speaker’ della Camera dei Rappresentanti all’epoca di Clinton. E, a quanto pare, non irreprensibile nella vita coniugale.

La riforma della assistenza sanitaria di Obama è il peggiore incubo della destra (17 luglio 2013)

luglio 17, 2013

 

 

July 17, 2013, 5:09 pm

Obamacare Is the Right’s Worst Nightmare

News from New York: it looks as if insurance premiums on the individual market are going to plunge thanks to Obamacare. This shouldn’t come as a surprise; in fact, the New York experience perfectly illustrates why Obamacare had to look the way it does. And it also illustrates why conservatives should be terrified about this legislation, as it takes effect. Americans may have had a lot of misgivings in advance, thanks to vast, deliberately spread misinformation. But I agree with Matt Yglesias — unless the GOP finds even more ways to sabotage the plan, this thing is going to work, it’s going to be extremely popular, and it’s going to wreak havoc with conservative ideology.

To understand what’s happening in New York, you have to start with what almost everyone at least pretends to believe: Americans shouldn’t find it impossible to get health insurance because of pre-existing conditions that aren’t their fault. Two decades ago, New York tried to deal with this by imposing community rating: insurance is available to everyone, and the price doesn’t depend on your medical history.

The problem was that this created a death spiral: young, healthy people didn’t buy insurance, worsening the risk pool, driving up premiums, driving out more relatively healthy people, etc., until you were left with a rump of very ill people paying very high rates.

How do you deal with this? Well, ideally, Medicare for all. But since that wasn’t going to happen, you improve the risk pool by requiring everyone to buy insurance — the individual mandate. And since some people won’t be able to afford that, you also offer subsidies. Voila! ObamaRomneycare!

 

Where does the money for the subsidies come from? Partly by reducing corporate welfare: reducing overpayments for Medicare Advantage, reducing tax breaks for very generous insurance plans; partly with new taxes on the wealthy.

And while a few people will be hurt — young, healthy individuals too affluent to qualify for subsidies, wealthy taxpayers, etc. — a much larger number of people will be helped, some of them enormously.

Does this amount to “redistribution”? Well, yes — not as an end in itself, but yes, a lot of people will be made better off at the expense of an affluent few.

And Yglesias is right: there will be bobbles along the way, but this is going to become an immensely popular program. By the time Liz Cheney challenges Hillary Clinton’s reelection campaign, there will be signs at the rallies declaring “Don’t let the government get its hands on Obamacare!”

Conservatives are right to be hysterical about this: it’s an attack on everything they believe — and it’s going to make Americans’ lives better. What could be worse?

 

La riforma della assistenza sanitaria di Obama è il peggiore incubo della destra

 

Notizia da New York: sembra che i premi assicurativi sul mercato individuale stiano precipitando grazie alla riforma sanitaria di Obama. Non dovrebbe essere una sorpresa: di fatto, l’esperienza di New York illustra perfettamente le ragioni per le quali quella riforma doveva essere simile a quello che è. Ed illustra anche perché i conservatori dovrebbero essere terrorizzati da questa legislazione, nel momento un cui entra in funzione. Può darsi che gli americani abbiano una quantità di timori, grazie ad una cattiva informazione vasta e deliberatamente diffusa. Ma io sono d’accordo con Matt Yglesias – a meno che il Partito Repubblicano non trovi altri modi per sabotare il piano, questa cosa è destinata a funzionare, ad essere estremamente popolare, ed è destinata e gettare nello scompiglio l’ideologia conservatrice.

Per comprendere cosa sta succedendo a New York, si deve partire da quello che quasi tutti almeno fingono di credere: agli americani non dovrebbe risultare impossibile avere la assicurazione sanitaria a causa delle loro preesistenti condizioni di salute, che non sono una loro responsabilità. Due decenni orsono, New York cercò di misurarsi con questo problema imponendo la “valutazione comunitaria” [1]: la assicurazione è disponibile per tutti, a prescindere dalla propria storia sanitaria.

Il problema è stato che in questo modo si è creata una spirale fatale: i giovani e le persone in salute non acquistano la assicurazione, peggiorando gli equilibri del rischio complessivo, innalzando i premi, spingendo fuori dal sistema ancora di più le persone in relativamente buona salute, etc., finché non si resta con un gruppo superstite  di persone molto malate che pagano aliquote molto elevate.

Come si può fare i conti con questa situazione? Ebbene, idealmente con Medicare per tutti. Ma, dal momento che questo non è destinato ad accadere [2], si può migliorare il rischio di sistema chiedendo a tutti di acquistare la assicurazione – il cosiddetto ‘mandato individuale’ [3]. E dal momento che alcune persone non potranno permetterselo, si offrono anche i sussidi. Voilà! Ecco la riforma di Obama, che è poi la stessa della precedente di Romney [4]!

Sa dove vengono i soldi per i sussidi? In parte dalla riduzione di forme di assistenza corporative: riducendo i costi eccessivi di Medicare Advantage [5], riducendo gli sgravi fiscali per programmi assicurativi molto generosi; in parte attraverso nuove tasse sui più ricchi.

E mentre un certo numero di persone saranno colpite – individui giovani ed in salute troppo benestanti per essere ammessi ai sussidi, contribuenti ricchi etc. – un numero molto più grande sarà aiutato, alcuni di loro in modo straordinario.

Questa corrisponde ad una “redistribuzione”? Ebbene, si – non come un fine in se stesso, ma è vero, un gran numero di persone staranno meglio a spese di pochi benestanti.

Ed Yglesias ha ragione: ci saranno alcuni strappi  [6] lungo il percorso , ma questo è destinato a diventare un programma immensamente popolare. Allorquando Liz Cheney [7] sfiderà Hillary Clinton nella campagna per la rielezione, ci saranno cartelli alle manifestazioni con su scritto “Non permettiamo che il Governo metta le mani sulla riforma di Obama!”.

I conservatori hanno ragione ad essere isterici su tutto questo: è un attacco a tutto quello che credono, ed è destinato a migliorare la vita degli americani. Cosa ci potrebbe essere di peggio?



[1] Tecnicamente il criterio di valutazione ‘comunitaria’ significa che il ‘rischio’ delle cattive condizioni di salute individuali – che in genere colpisce i cittadini che, per effetto della loro cattiva salute, si vedono imporre polizze assicurative molto costose – non è più rilevante, perché il cosiddetto calcolo attuariale dei costi della assicurazione viene fatto sulla base delle condizioni di salute di una intera comunità, e non più delle singole persone.

[2] Perché, ha sostenuto più volte Krugman, pur essendo la soluzione di una generalizzazione di Medicare la più desiderabile – in pratica una sanità effettivamente universale e pubblica – essa è ostacolata dai cospicui interessi in campo. Ed obiettivamente si tratta di interessi con una notevole forza politica, non solo per le influenze lobbistiche del sistema assicurativo, ma perché quel sistema è in America un vera e propria ‘economia’.

[3] Ovvero, la “delega’ a tutti gli individui a partecipare ad  una funzione di tutela collettiva della salute, facendo la loro parte con l’acquisto dell assicurazione. Salvo che chi non ha i mezzi per acquistarla, viene aiutato con sussidi del Governo Federale. Il termine ‘mandate’ (mandato, delega) può apparire un po’ singolare, ma è servito in una certa misura a superare una obiezione possibile di un principio costituzionale, secondo la quale agli individui non si può imporre alcun obbligo di comportamento verso se stessi, neppure in materia sanitaria, se non quando la condotta personale risulti lesiva della libertà altrui. Se ho ben compreso, in questo caso l’obbligo di essere assicurati è reso legalmente forte in quanto esprime una partecipazione indiscutibile degli individui a ad una funzione pubblica, come se fossero appunto ‘delegati’. Fatto sta che la Corte Suprema, che si temeva potesse far saltare l’intero impianto della Obamacare, alla fine lo ha approvato.

[4] Romney, che ha dovuto attaccare la riforma sanitaria nelle presidenziali del 2012, come Governatore del Massachusetts aveva in realtà approvata qualcosa di analogo, al livello del proprio Stato.

[5] Una ‘versione’ di Medicare di tipo più privatistico, ovvero con un ruolo maggiore delle assicurazioni. In sostanza, una versione apprezzabile per cittadini più benestanti.

[6] “Bobbles” non sono solo i ‘pom-pom’ …. Sono anche i movimenti irregolari che, ad esempio, fa un pezzo di sughero in un’acqua increspata (WordRefernce, English definition).

[7] La figlia conservatrice del famoso sodale di Bush Cheney.

John Galt e la teoria dell’impresa (16 luglio 2013)

luglio 16, 2013

 

July 16, 2013, 1:58 pm

John Galt and the Theory of the Firm

Via David Atkins at Digby’s place, Bloomberg Businessweek has a great piece about how an Ayn Rand-loving hedge fund guy is driving Sears into the ground.

One quirk, by the way, is that he doesn’t meet with his division heads in person; it’s all by video link. And look, I’ve seen that movie — probably a Syfy original, but I don’t remember (better than Sharknado, anyway); clearly, this guy doesn’t even exist, he’s a computer-generated hologram being manipulated by an evil IT guy.

But back to the economics: Eddie Lampert’s big idea is that markets and competition rool, so he’s forcing the different parts of Sears to compete for resources just as if they were independent firms, with individual division profitability the only criterion for success. According to BB, it’s not going well; but they don’t get much into the broader issues.

The first issue that should pop into anyone’s head here is, if the different divisions of Sears have no common interests, if the best model is competition red in tooth and claw, why should Sears exist at all? Why not just break it up into units that have no reason not to compete?

For that matter, why should any large firm exist? Why not just have small firms, or maybe just individuals, who make deals for whatever they need?

Of course, that’s not how we do things. We may live in a market sea, but that sea is dotted with many islands that we call firms, some of them quite large, within which decisions are made not via markets but via hierarchy — even, you might say, via central planning. Clearly, there are some things you don’t want to leave up to the market — the market itself is telling us that, by creating those islands of planning and hierarchy.

Now, why exactly that’s true — why some things are better done through market mechanisms, while others are better done through at least a bit of command-and-control — is a deep issue. Oliver Williamson (pdf) got a Nobel for helping elucidate some aspects of that issue (although that may not mean much to you, considering some of the people who’ve gotten Nobels).

The thing is, however, that for a free-market true believer the recognition that some things are best not left up to markets should be a disturbing notion. If the limitations of markets in providing certain kinds of shared services are important enough to justify the creation of command-and-control entities with hundreds of thousands or even millions of workers, might there not even be some goods and services (*cough* health care *cough*) best provided by non-market means even at the level of the economy as a whole?

So in a way Eddie Lampert is being consistent: he’s putting his money (or actually his investors’ money) where his ideology is, and applying market-worship to the internal management of his own company.

Of course, the purity of the experiment is sort of spoiled by the likelihood that there isn’t actually any such person, that he’s just a hologram. But still.

 

John Galt e la teoria dell’impresa

 

Per il tramite di David Atkins sul blog Digby, vedo che Bloomberg Businessweek pubblica un gran pezzo su un personaggio degli hedge-fund amante di Ayn Rand [1], che sta spremendo SEARS [2].

Una (sua) mania, per inciso, è che non incontra i suoi capi reparto personalmente; fa tutto attraverso collegamenti video. E guardate, ho visto la ripresa – probabilmente un originale Syfy [3], ma non ricordo (meglio che Sharknado [4], comunque); è chiaro che questo personaggio neanche esiste, è un ologramma generato da un computer che viene manipolato da un malvagio personaggio del genere IT [5].

Ma torniamo all’economia. La grande idea di Eddie Lampert [6] è che i mercati e la competizione comandano [7], dunque egli sta costringendo le diverse parti di SEARS a competere per le risorse come se fossero aziende indipendenti, con la capacità delle divisioni singole di fare profitti come unico criterio per il successo. Secondo Bloomberg Businessweek non sta andando bene; ma essi non si interessano molto agli aspetti più generali.

Il primo tema che dovrebbe transitare un attimo nella testa di ognuno è, se le diverse divisioni di SEARS non hanno alcun comune interesse, se il miglior modello è una accesa competizione con le unghie ed i denti, perché dovrebbe esistere la SEARS? Perché frantumarla in unità che hanno la sola ragione di essere in competizione?

Per lo stesso motivo, perché dovrebbe esistere una qualsiasi grande impresa? Perché non aver soltanto piccole imprese, che fanno accordi per tutto quello di cui hanno bisogno?

Naturalmente, non è questo il modo in cui vanno le cose. E’ possibile che si viva in un mercato simile ad un mare, ma quel mare è cosparso di molte isole che noi chiamiamo imprese, alcune delle quali abbastanza ampie, all’interno delle quali le decisioni sono prese non attraverso i mercati ma per via gerarchica – si potrebbe dire persino attraverso una pianificazione centrale. Chiaramente, ci sono alcune cose che non bisogna lasciare al mercato – il mercato spesso ci dice quali, creando quelle isole di pianificazione e di gerarchia.

Ora, la ragione per la quale quanto ora detto è vero – perché alcune cose sono meccanismi che riescono meglio attraverso i mercati, mentre altre riescono meglio almeno attraverso un po’ di funzioni di comando-e-controllo – è un tema profondo. Oliver Williamson (disponibile in pdf) ha avuto il Nobel per aver contribuito ad illustrare alcuni aspetti di quella tematica (sebbene questo possa non interessarvi granché, considerati alcuni individui che hanno ottenuto il premio Nobel [8]).

Il punto, tuttavia, è che per un vero credente nel libero mercato, il riconoscere che ci siano cose che vanno nel migliore dei modi se non sono lasciate ai mercati, dovrebbe risultare un concetto fastidioso. Se le limitazioni dei mercati nel fornire certi generi di servizi condivisi sono abbastanza importanti da giustificare la creazione di entità di comando-e-controllo con centinaia di migliaia o persino milioni di lavoratori, non potrebbero esserci anche alcuni beni o servizi (ad esempio la assistenza sanitaria, colpetto di tosse!) che sono meglio forniti da strumenti non di mercato, persino al livello dell’economia nel suo complesso?

Dunque, in certo qual modo Eddie Lampert è stato coerente: sta mettendo il suo denaro (o in effetti il denaro dei suoi investitori) dove gli dice la sua ideologia, ed applica il culto del mercato alla gestione interna della propria impresa.

Naturalmente, la purezza dell’esperimento è un po’ viziata dalla probabilità che in effetti non si tratti di una persona e che egli sia soltanto un ologramma. Eppure …


[1] Come ormai è noto, Ayn Rand è una sorta di icona dei conservatori americani. Filosofa-scrittrice americana di origini russe (nacque nel 1905 a San Pietroburgo e morì a New York nel 1982), ispiratrice del pensiero “libertarian” – che non potremmo tradurre né con “libertario” né con “liberista”, perché probabilmente non può venirci in mente niente di paragonabile in Italia o in Europa – scrisse un libro di recente tornato molto in auge, “Atlas Shrugged”, nel quale si dipana una singolare storia di un imprenditore che entra in lotta contro un immaginario Stato totalitario burocratico, quasi come un eroe partigiano di una guerra di liberazione capitalistica. E quell’imprenditore si chiamava John Galt.

z13  z14

 

 

 

 

[2] Sears è una catena di Grande distribuzione statunitense fondata nel 1886 da Richard Warren Sears e Alvah Curtis Roebuck. È diventato il più grande dettagliante negli Stati Uniti dalla metà del ventesimo secolo (Wikipedia).

[3] Syf è un canale televisivo statunitense, lanciato il 24 settembre 1992, ed è specializzato nei generi fantascienza, paranormale, avventura, fantasy e horror. Dal 7 luglio 2009 il canale ha cambiato nome da Sci-Fi Channel a quello attuale

[4] Un recente film di squali, pare bruttissimo.

[5] Suppongo dal libro di Stephen King, dal quale numerose serie cinematografiche e televisive.

[6] Pare sia il nome dell’individuo che ha ora in mano la Sears.

[7] “Rool” è un equivalente di “rule” (UrbanDictionary).

[8] Evidentemente, il riferimento ironico è a se stesso.

Il paradosso della flessibilità (16 luglio 2013)

luglio 16, 2013

 

 

July 16, 2013, 9:33 am

The Paradox of Flexibility

Bruce Bartlett’s latest has some interesting history from the 1930s that just so happens to bear on my mild chiding of Noah Smith (Smith has an answer that, frankly, I don’t understand — but he’s been such a good guy over time that I’m just going to let this one drop). Anyway, Bartlett focuses largely on the malign influence of Henry Hazlitt, who was among other things writing many editorials for the New York Times, always insisting that the answer to the Great Depression was to encourage big cuts in wages.

Hazlitt remains, by the way, a popular figure on the right. Once I was walking down the street near Capitol Hill and a man in a suit yelled at me, “Read Henry Hazlitt and learn some economics!” And Hazlitt’s continuing popularity should serve as some kind of lesson to those of us, like me or Matt O’Brien, who marvel at the continuing influence of inflation fearmongers; they’ve been wrong about everything for 5 years, so why do they still get treated as authority figures? Well, Hazlitt has been wrong about everything for more than 80 years, and is still regarded as a guru. Bad ideas, it appears, are extremely robust in the face of contrary evidence.

The thing is, by the time Hazlitt was penning those editorials demanding wage cuts, Keynes and Fisher had already said everything that needed to be said. Keynes in 1930:

[I]f a particular producer or a particular country cuts wages, then, so long as others do not follow suit, that producer or that country is able to get more of what trade is going. But if wages are cut all round, the purchasing power of the community as a whole is reduced by the same amount as the reduction of costs; and, again, no one is further forward.

And Fisher pointed out in 1933 that a general fall in wages and prices actually makes things worse, by making debtors poorer in real terms; true, creditors are made richer, but because debtors are more likely to cut spending than creditors are to increase it, the overall effect is to deepen the depression.

One implication of all this is what Gauti Eggerstsson and I (pdf) call the paradox of flexibility: making it easier for wages to fall, as Hazlitt demanded then and his modern acolytes demand now, doesn’t just redistribute income away from workers to the wealthy (funny how that happens); it actually worsens the economy as a whole.

One thing Noah Smith did get right, by the way, is his suggestion that Japanese wages are less sticky than in other advanced countries. There’s a fair bit of evidence to that effect, above all the fact that Japan is pretty much unique in having gone into actual deflation. The point, however, is that this is not a good thing in a country that is in a liquidity trap and suffering from a debt overhang: when it comes to wage and price flexibility, the situation in the economy has developed not necessarily to Japan’s advantage.

One place Bartlett goes a bit wrong, I’d argue, is in continuing to preach the Friedman line that all this could have been avoided if only the Fed had done its job; that’s a view that, I’d argue,has taken a real beating from recent events.But that’s going to have to wait for a later post.

 

Il paradosso della  flessibilità

 

L’ultimo scritto di Bruce Bartlett contiene alcune interessanti storie degli anni Trenta che finiscono proprio col riguardare il mio leggero rimbrotto a Noah Smith (Smith ha una risposta che, francamente non capisco – ma egli è stata una persona così brava, nel corso del tempo,  che sto proprio pensando di lasciar correre). In ogni caso, Bartlett si concentra ampiamente sulla malefica influenza di Henry Hazlitt, che tra le altre cose scrisse molti editoriali sul New York Times, e che sosteneva di continuo che la risposta alla Grande Depressione fosse incoraggiare grandi tagli salariali.

Hazlitt, come è naturale, resta un figura popolare a destra. Una volta stavo camminando lungo una strada vicino a Capitol Hill ed un uomo in giacca e cravatta mi gridò: “Leggi Henry Hazlitt e impara un po’ d’economia!” E la permanente popolarità di Hazlitt dovrebbe in qualche modo servire di lezione a quelli tra noi, come Matt O’Brien e il sottoscritto, che si meravigliano della perdurante influenza dei seminatori di paure di inflazione; hanno avuto torto su ogni cosa per cinque anni, perché devono ancora essere trattati come persone autorevoli? Ebbene, Hazlitt ha avuto torto su tutto per più di 80 anni, ed è ancora considerato come un guru. Pare che le cattive idee siano estremamente resistenti, a fronte di prove contrarie.

Il punto è che, al tempo in cui Hazlitt stava scrivendo i suoi editoriali che chiedevano tagli salariali, Keynes e Fisher avevano già detto tutto quello che andava detto. Keynes nel 1930:

“(S)e un particolare produttore od un particolare paese tagliano i salari, allora, per tutto il tempo in cui gli altri non fanno la stessa cosa, quel produttore o quel paese sarà capace di ottenere di più di quanto gli verrebbe dal commercio. Ma se i salari sono tagliati dappertutto, il potere di acquisto della comunità nel suo complesso è ridotto della stessa quantità della quale sono ridotti i costi; e, di nuovo, niente si è spostato”.

E Fisher metteva in evidenza nel 1933 che una caduta generale dei salari e dei prezzi avrebbe effettivamente peggiorato le cose, rendendo i debitori più poveri in termini reali; è vero, i creditori diventano più ricchi, ma poiché è più probabile che i debitori taglino le spese piuttosto che i creditori le accrescano, l’effetto generale è che la depressione si approfondisce.

Una implicazione di tutto questo è quello che Gauti Eggertsson ed il sottoscritto (disponibile in pdf) chiamiamo il paradosso della flessibilità: fare in modo che i salari cadano più facilmente, come chiedeva Hazlitt allora e come chiedono i suoi accoliti oggi, non solo redistribuisce il reddito dai lavoratori ai ricchi (e questo non è strano [1]); effettivamente peggiora l’economia nel suo complesso.

Una cosa che Noah Smith ha detto giusta, per inciso, è la sua intuizione che i salari giapponesi siano più vischiosi di quelli degli altri paesi avanzati. Ci sono un bel po’ di prove a questo fine, soprattutto il fatto che il Giappone sia quasi l’unico ad essere  finito nella deflazione. Il punto, tuttavia, è che questa non è una buon cosa in un paese che si trova in una trappola di liquidità e soffre di eccesso di debito: quando quel paese giunge  alla flessibilità [2] dei salari e dei prezzi,   la situazione dell’economia non si è necessariamente sviluppata a vantaggio del Giappone.

Direi che Bartlett finisce in un punto sbagliato, quando continua a sostenere la linea di Friedman secondo la quale tutto questo avrebbe potuto essere evitato se la Fed avesse svolto bene il suo compito; direi che si tratta di un punto di vista che ha preso un bel colpo dagli avvenimenti recenti.  Ma per questo si deve attendere il prossimo post.


[1] Letteralmente: “strano come questo accada”.

[2] Mi pare che il senso di questa espressione sia: quando non si può più evitare che i salari (normalmente ‘vischiosi’) divengano più flessibili (e dunque calino, in presenza di una disoccupazione elevata), nel frattempo le condizioni dell’economia non sono migliorate, in casi come quello del Giappone (dove quella flessibilità è apparentemente più difficile).

Ancora sulla flessibilità del prezzo dei salari in un trappola di liquidità (15 luglio 2013)

luglio 15, 2013

 

July 15, 2013, 3:55 pm

Wage-Price Flexibility in a Liquidity Trap, Again Again Again

One of the frustrating things about macroeconomic discussion since the Great Recession struck is the prevalence of zombie fallacies — misconceptions that one imagines have been killed by logic or evidence, but just keep coming back to eat our brains. Often, maybe usually, politics is what’s keeping these zombies alive; or, if not exactly politics, the attempt of economists to defend their intellectual investments in failed theories.

Sometimes, however, the zombies manage to eat a brain or two simply because someone wasn’t paying attention. And I think this is what has just happened to the usually excellent Noah Smith.

Smith finds Japan’s persistent shortfall puzzling, because — he claims — this isn’t supposed to happen in New Keynesian models:

In a New Keynesian model, when there is a demand shortfall, unemployment is the result. The central bank can print money in order to combat the shortfall, which raises inflation and lowers unemployment. But if the central bank does nothing, prices will eventually adjust, and unemployment will go away. This New Keynesian model corresponds nicely to the simple AD-AS model that people learn in Econ 102.

In the words of Charlie Brown, aaugh!

People, we’ve been through this.

Yes, in a standard AS-AD or NK model, high unemployment leads to falling wages and prices, and this eventually restores full employment. But how does this happen? Not because making labor cheaper increases the quantity of labor demanded — Keynes understood that point perfectly long before he even wrote the General Theory:

Or again, if a particular producer or a particular country cuts wages, then, so long as others do not follow suit, that producer or that country is able to get more of what trade is going. But if wages are cut all round, the purchasing power of the community as a whole is reduced by the same amount as the reduction of costs; and, again, no one is further forward.

No, the only reason deflation “works” in the standard model is that it increases the real money supply, which leads to lower interest rates; in effect, it acts like an expansionary monetary policy.

But Japan has been in a liquidity trap during the whole period Smith looks at. Monetary expansion is ineffective unless it can raise expectations of future inflation. Deflation is definitely not going to help. In fact, by raising the real burden of debt, it makes things worse

A corollary is that while sticky wages are a real phenomenon — the evidence just keeps getting stronger — their importance has to be appreciated correctly. You need them to understand what we’re seeing, which is the failure of deflation to appear in the US now (and the slow pace of deflation in Japan). They are not, repeat NOT the reason either Japan or we have failed to recover.

How is it that this stuff — which is more or less where we came in – hasn’t gotten through?

 

Ancora sulla flessibilità del prezzo dei salari in un trappola di liquidità.

 

Una delle cose frustranti nel dibattito macroeconomico dallo scoppio della Grande Recessione è la prevalenza di errori zombie – idee sbagliate che uno immagina siano state liquidate dalla logica o dai fatti, ma tornano proprio indietro per mangiarti il cervello. Spesso, forse comunemente, la politica consiste nel tener vivi questi zombie; oppure, se non esattamente la politica, il tentativo degli economisti di difendere i loro investimenti intellettuali in teorie andate a male.

Talvolta, tuttavia, gli zombie minacciano di mangiare un cervello o due perché qualcuno non ha fatto attenzione. E penso che questo sia il caso del di solito eccellente Noah Smith.

Smith trova la crisi persistente del Giappone sconcertante; perché – sostiene, non è quello che si supponeva accadesse nei modelli neokeynesiani:

“In un modello neokeynesiano, quando c’è una caduta della domanda, la conseguenza è la disoccupazione. La banca centrale può stampare moneta allo scopo di combattere la caduta, la qualcosa aumenta l’inflazione e abbassa la disoccupazione. Ma se la banca centrale non fa niente, alla fine c’è una correzione per effetto dei prezzi, e la disoccupazione scompare. Questo modello neokeynesiano corrisponde in modo soddisfacente al semplice modello Domanda Aggregata/ Offerta Aggregata che le persone apprendono su semplici libri di testo”.

Come direbbe Charlie Brown: “aaugh!”.

Gente, ci siamo passati [1].

Si, in un modello standard DA/OA o in un modello neokeynesiano, l’elevata disoccupazione porta ad una caduta dei salari e dei prezzi, e questo alla fine ripristina la piena occupazione. Ma come accade questo? Non perché rendere il lavoro più conveniente aumenti la quantità richiesta di lavoro – Keynes comprese il punto perfettamente perfino molto tempo prima che scrivesse la Teoria Generale [2]:

“O ancora, se un particolare produttore od un particolare paese tagliano i salari, allora, per tutto il tempo in cui gli altri non fanno la stessa cosa, quel produttore o quel paese sarà capace di ottenere di più di quanto gli verrebbe dal commercio. Ma se i salari sono tagliati dappertutto, il potere di acquisto della comunità nel suo complesso è ridotto della stessa quantità della quale sono ridotti i costi; e, di nuovo, niente si è spostato”.

No, la sola ragione per la quale la deflazione “funziona” in un modello standard è che essa accresce l’offerta reale di moneta, il che porta a tassi di interesse più bassi; in effetti essa funziona come una politica monetaria espansiva.

Ma il Giappone è stato in una trappola di liquidità per l’intero periodo al quale Smith fa riferimento. L’espansione monetaria è inefficace a meno che essa non possa accrescere le aspettative di inflazione futura. La deflazione non è destinata in via definitiva ad essere d’aiuto. Di fatto, accrescendo il peso reale del debito, essa rende le cose peggiori.

Un corollario è che mentre la vischiosità dei salari è un fenomeno reale – le prove sono sempre più forti – la importanza di quel fenomeno deve essere apprezzata correttamente. C’è bisogno di capire quello che si osserva, ovvero il fatto che la deflazione non si sta materializzando oggi negli Stati Uniti (ed il ritmo comunque lento della deflazione in Giappone). Queste non sono affatto le ragioni per le quali  sia il Giappone che noi stiamo mancando la ripresa.

Come è possibile che su questa roba – che più o meno è ciò in cui noi siamo stati rilevanti – non ci si sia intesi?


[1] Krugman si riferisce al fatto che aveva trattato la stessa questione in una polemica con Amity Shlaes nel novembre del 2008.

[2] Il riferimento è ad un articolo di Keynes dal titolo “La grande depressione del 1930”, che venne pubblicato appunto nel 1930.

L’America è piatta (15 luglio 2013)

luglio 15, 2013

 

July 15, 2013, 12:40 pm

America Is Flat

Sorry about radio silence this AM — busy with errands, but also feeling the need for at least a mental vacation from all the ugliness. And I’m going to continue that vacation by posting about something with little or no relevance to current policy debates, but which I’ve been curious about and doing a bit of casual research about on the side.

I’ve long had a small bee in my bonnet about the line — which you hear all the time — that portrays long-distance travel, trade, and so on as something new. You know: back in the day people lived in the same place all their lives, they only did business with their immediate neighbors, each village was self-sufficient, but now we’re in a world of global globalizing globaloney and all that.

Obviously if you go back far enough the caricature was true. But we’ve had a lot of international migration and trade ever since steam engines and telegraphs came in. There has been a recent huge increase in the value of manufacturing trade, tied to vertical disintegration of production; but aside from that, to what extent is the world really getting smaller or flatter or whatever?

Well, there’s one trend we know about that runs completely counter to the usual perception: within the United States, at least, people are moving less — a lot less. Greg Kaplan and Sam Schulhofer-Wohl (pdf) say that interstate mobility has been cut in half over the past 20 years. And interestingly, they suggest that this is in part because regions have become more similar: increasingly, different parts of the country are producing the same kinds of things and employing the same kind of people, so that there’s less reason to move.

This story actually matches up with what the new economic geography literature says, which is that regional specialization peaked around a century ago and has been declining since. Once upon a time steel came from Pittsburgh, butchered hogs from Chicago, pencils from Pennsylvania, coats from North Dakota, and all that; nowadays we’re all cubicle rats doing whatever it is we do:

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But here’s my question: if we’re all increasingly doing the same thing, shouldn’t we be doing less trade with each other? Now, we know that international trade has been rising fast. But is the same true of interregional trade within the United States?

Well, we don’t actually collect that kind of data (although the Canadians do; more on that in a minute). We do, however, have the Commodity Flow Survey, which measures total domestic shipments of stuff in general. What does this tell us? Well, it shows a slight decline over time in the ratio of shipments to GDP:

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Meanwhile, Canada has actual data on interprovincial trade flows. Looking only at goods, to be more comparable to the US numbers, I get this:

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It’s a smaller number, because a lot of those US shipments are short-distance and wouldn’t register as interprovincial trade. But again, a small decline rather than the big rise we see in international trade.

So what’s the moral of the story? Well, the world is flat, but America isn’t. Or actually, America is flat — more and more, it’s all the same, which gives us less reason to move and even less reason to ship stuff around.

And the growth of international trade in manufactured goods needs, perhaps, to be seen as something more special and less generic than often imagined. It’s not that there’s some inexorable force leading to stuff rattling around the globe; it’s that the combination of containerization and trade liberalization has made it possible to break up the value chain to take advantage of international wage differences.

As I said, no idea if there’s any policy relevance here; but I’m having a bit of fun.

 

L’America è piatta

 

 

Spiacente per il silenzio radio di questa mattina – occupato con varie commissioni, sento anche il bisogno di un’ultima vacanza mentale da tutte le brutture. E sono orientato a continuare questa vacanza pubblicando qualcosa con poca o piccola attinenza agli attuali dibattiti politici, ma di cui mi sono incuriosito, ed anche facendo un po’ di ricerca casuale su quel fronte.

Sono sempre stato un po’ fissato con la storiella – che si sente ripetere di continuo – che descrive il viaggio a lunga distanza, nel commercio ed in altro, come qualcosa di nuovo. Sapete: la gente un tempo viveva l’intera propria esistenza  nello stesso posto, faceva i propri affari nelle proprie immediate vicinanze, ogni villaggio era autosufficiente, ma ora siamo nel mondo della fregatura [1] globale globalizzante e via di seguito.

Ovviamente, se si va abbastanza indietro nel tempo, quella rappresentazione era vera. Ma abbiamo avuto un bel po’ di migrazioni internazionali e di commerci da quando entrarono in scena le macchine a vapore ed il telegrafo. C’è stato un recente vasto incremento nel valore del commercio manifatturiero, collegato ad una disintegrazione verticale della produzione, ma, a parte quello, in quale misura il mondo sta effettivamente diventando più piccolo, più piatto o qualcosa del genere?

Ebbene, c’è una tendenza della quale sappiamo che va completamente contro la percezione comune: almeno all’interno degli Stati Uniti la gente si muove di meno – molto di meno. Greg Kaplan a Sam Schulhofer-Wohl (disponibile in pdf) dicono che la mobilità interstatale si è ridotta della metà nel corso degli ultimi 20 anni. Ed essi suggeriscono, in modo interessante, che questo in parte derivi dal fatto che le varie aree sono diventate più simili: in modo crescente, diverse parti del paese stanno producendo lo stesso genere di cose ed occupando lo stesso genere di persone, dunque ci sono meno ragioni per muoversi.

Questa storia effettivamente fa il pari con quello che dice la letteratura della nuova geografia economica, secondo la quale la specializzazione regionale ha avuto il suo picco un secolo fa e da allora sta declinando. Una volta l’acciaio veniva da Pittsburgh, la carne di maiale da Chicago, le matite dalla Pennsylvania, i cappotti dal Nord Dakota, e così via; ora siamo tutti topi in uno stanzino che fanno quello che facciamo, qualsiasi cosa sia:

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Ma ecco la mia domanda: se stiamo sempre più facendo le stesse cose, non dovremmo avere meno commercio gli uni con gli altri? Ora, sappiamo che il commercio internazionale è cresciuto velocemente. Ma la stessa cosa è vera per il commercio interregionale all’interno degli Stati Uniti?

Ebbene, in effetti non sono dati che possiamo mettere assieme (sebbene il Canada lo faccia; ci vengo tra un attimo). Abbiamo, tuttavia, il Sondaggio sui flussi delle materia prime, che misura le spedizioni totali di ogni genere di oggetto all’interno del paese. Che cosa ci dice? Ebbene, esso mostra un leggero declino nel tempo della percentuale delle spedizioni sul PIL:

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Nel frattempo, il Canada ha i dati effettivi sui flussi commerciali interprovinciali. Guardando solo ai beni, in modo da renderli maggiormente confrontabili con i dati degli Stati Uniti, ottengo questo:

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Si tratta di un dato più piccolo, perché una buona quantità di quelle spedizioni degli Stati Uniti sono a corta distanza e non sarebbero registrate come commerci interprovinciali. Ma abbiamo ancora un piccolo declino, piuttosto che la grande crescita che osserviamo nel commercio internazionale.

Qual è dunque la morale della storia? Ebbene, il mondo è piatto, ma l’America non lo è. O meglio, in effetti l’America è piatta – sempre di più è interamente uguale a se stessa, che è il motivo per il quale abbiamo meno ragioni di muoverci e ragioni persino minori per spedire la roba in giro.

E la crescita del commercio internazionale nei beni manifatturieri ha bisogno, forse, di essere vista come qualcosa di più specialistico e di meno generico di quello che abbiamo spesso immaginato. Non c’è una qualche forza inesorabile che ci conduce a riempirci di oggetti sbattendoci in tutto il globo; si tratta della combinazione della containerizzazione e della liberalizzazione dei commerci che ha reso possibile interrompere la catena del valore in modo da avvantaggiarsi delle differenze salariali internazionali.

Come ho detto, non ho alcuna idea se in questo ci sia qualche rilevanza politica; però mi sto proprio divertendo.


[1] “Globaloney” è il titolo di un libro di successo di Michael Veseth. Secondo alcuni il senso sarebbe quello di “balla globale” etc.

Non esiste il “vero” tasso disoccupazione (14 luglio 2013)

luglio 14, 2013

 

July 14, 2013, 1:41 pm

There Is No “True” Unemployment Rate

In my last post I compared food stamp use with U6, a broad definition of unemployment — and I saw some commenters claiming that U6 is the “true” unemployment rate, even that I was for the first time admitting this fact.

Um, no. There is no “true” unemployment rate, just various indicators of the state of the labor market. Fortunately, these indicators pretty much move in tandem, so we’re not usually confused about whether the market is getting better or worse. But they do measure somewhat different things, and which one you want to look at depends on what questions you’re asking.

After all, what do we mean when we say someone is unemployed? We don’t just mean “not working”, because that applies to retirees, the disabled, playboys on yachts, etc.. We mean someone who wants to work but can’t find that work — a useful notion. But there’s some unavoidable fuzziness about both what it means to want to work and what it means to be unable to find work.

Suppose that I were to retire from the econ biz and take up origami, or something — but could still be tempted to come out and give lectures if offered million-dollar fees. Do I want to work or not? As a practical matter, no, since I don’t get offers in that range. But you could imagine a situation where the numbers were closer, and the question of whether I really want work is genuinely ambiguous.

What about being able to find work? Suppose you have an expensively acquired degree, and the only jobs out there are part-time gigs at minimum wage. You might not take those jobs; in that case, is it really true that you can’t find work? Alternatively, you might indeed take such a job; is it really right in that case to say that you did find work?

None of this is a counsel of despair; it just says that we have to develop practical measures that give us a good read on what is happening, even if they don’t correspond to the Platonic ideal of unemployment.

The usual measure, U3, measures your desire to work by asking whether you have been actively searching in the recent past; it measures your ability to find work by your taking a job, any job. Obviously this can deviate from the Platonic ideal in both directions: there could be people who could find work if they were willing to take the jobs on offer, and there could be people who want to work but aren’t actively searching because they know that at the moment there’s no point — or who are working, but only part-time because that’s all they can find.

U6 casts a wider net; it includes people who are working part-time but say they want full-time work, it includes people who aren’t actively searching but either were working recently or say that they aren’t looking for lack of opportunities. Again, this could clearly deviate from the Platonic ideal, but it’s a reasonable stab at the problem.

In practice, as I’ve suggested, these measures tell pretty much the same story about the ups and downs of the labor market:

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So it’s not a big issue. However, when you’re looking at food stamps, you want a sense of how many Americans are in economic distress — and a broad measure like U6 comes closer to doing that than the narrow measure usually cited.

That’s all there is to it. No deep issues, just practical choices in a world where measurement is never perfect.

 

Non esiste il “vero” tasso disoccupazione

 

Nel mio ultimo post ho messo a confronto l’utilizzo dei buoni alimentari con lo U6, una ampia definizione di disoccupazione – ed ho visto alcuni commentatori sostenere che l’U6 sarebbe il vero tasso di disoccupazione, persino che era la prima volta che io riconoscevo questo fatto.

No, non credo. Non c’è un “vero” tasso di disoccupazione, solo vari indicatori delle condizioni del mercato del lavoro. Fortunatamente, questi indicatori il più delle volte si muovono in coppia, cosicché non ci confondiamo sul fatto che il mercato del lavoro stia andando meglio o peggio. Ma essi misurano per davvero in qualche modo cose diverse,  e quello che si vuole vedere dipende dalle domande che si stanno ponendo.

Dopotutto, cosa significa quando diciamo che qualcuno è disoccupato? Non intendiamo che “non sta lavorando”, perché quello varrebbe per i pensionati, i disabili, i playboy sugli yachts, etc. Intendiamo qualcuno che vuole lavorare ma non trova lavoro – un concetto utile. Ma c’è una inevitabile vaghezza a proposito di quello che significa sia voler lavorare che essere incapaci di trovare lavoro.

Supponiamo che mi stia per ritirare dalla attività economica e mi occupi di origami, o qualcosa del genere – ma potrei ancora essere tentato di venir fuori e fare conferenze se mi offrissero parcella da un milione di dollari. Sono uno che vuole lavorare o no? In senso pratico no, dato che non ho offerte di quelle dimensioni. Ma si potrebbe immaginare una situazione nella quale i numeri fossero più vicini, e la domanda relativa alla mia volontà di lavorare diventerebbe genuinamente ambigua.

Cosa dire a proposito della capacità di trovare lavoro? Supponiamo di possedere una laurea costosamente ottenuta, e che i posti di lavoro in giro siano lavoretti a part-time con salari minimi. Potreste non accettare quei posti di lavoro: in quel caso, sarebbe effettivamente vero che non potete trovare lavoro? In alternativa, potreste accettare lavori del genere; sarebbe davvero giusto in quel caso dire che avete trovato lavoro?

Queste non sono in nessun caso ragioni per disperarsi: ci dicono soltanto che dobbiamo sviluppare misure pratiche che ci diano una buona lettura di quanto sta succedendo, anche se non corrispondono all’idea platonica di disoccupazione.

La misura consueta, U3, misura il vostro desiderio di lavorare chiedendovi se avete attivamente cercato lavoro nel recente passato; essa misura la vostra capacità di trovare lavoro accettando un posto, qualsiasi posto. Ovviamente, essa può deviare dall’idea platonica in entrambe le direzioni: ci potrebbero essere persone che potrebbero trovare lavoro se avessero voglia di accettare i posti in offerta, e ci potrebbero essere persone che vogliono lavorare ma non stanno attivamente cercando perché sanno che al momento non avrebbe senso – oppure ci sono persone che stanno lavorando, ma solo a part-time perché è quanto possono trovare.

La misurazione U6 getta una rete più ampia: essa comprende persone che stanno lavorando a part-time ma dicono di voler lavorare a tempo pieno, comprende persone che non stanno cercando attivamente ma o stavano lavorando di recente o dicono che non stanno cercando per mancanza di opportunità. Potrebbe essere anche questa una deviazione dall’idea platonica, ma è un ragionevole tentativo di rispondere al problema.

In pratica, come avevo suggerito, queste misure ci raccontano sostanzialmente la stessa storia sugli alti ed i bassi del mercato del lavoro:

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Dunque, non è una grande questione. Tuttavia, quando si guarda ai buoni alimentari, si vuole avere la percezione di quanti americani siano in difficoltà economiche – ed una misura generale come la U6 è più vicina a fornirla che non le misurazioni  più ristrette normalmente citate.

Questo è tutto a proposito di questa questione. Non ci sono tematiche profonde, solo scelte pratiche in un mondo nel quale le misure non sono mai perfette.

La marcia degli scrocconi ruminanti (13 luglio 2013)

luglio 13, 2013

 

July 13, 2013, 6:08 pm

March of the Munching Moochers

Or, you know, maybe people desperately need help:

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SNAP participation is the percentage of the population receiving food stamps. U6 is the unemployment measure that includes the underemployed and those who aren’t currently searching because no jobs are available. SNAP participation normally follows U6 with a lag, and is in that sense behaving normally.

 

La marcia degli scrocconi ruminanti

 

O magari, sapete, può darsi che la gente abbia disperatamente bisogno d’aiuto:

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La partecipazione allo SNAP [1] è la percentuale della popolazione che riceve aiuti alimentari. “U6” è la misura della disoccupazione che include i sottooccupati e coloro che non sono attualmente alla ricerca di lavoro perché non ci sono posti disponibili. La partecipazione allo SNAP normalmente segue la misura dello U6 con uno sfasamento, e in quel senso si sta comportando normalmente [2].


[1] Lo SNAP è il “Supplemental Nutrition Assistence Program”, ovvero il “Programma assistenziale di integrazione alimentare”. Il “Food Stamp” è l’altro termine con il quale si indica lo SNAP; fornisce aiuti finanziari per l’acquisto di cibo alle persone con redditi bassi o senza reddito che vivono negli Stati Uniti. E’ un programma di aiuti federale, amministrato dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ma i sussidi sono distribuiti dai singoli Stati. Interessante l’elenco degli aventi diritto; oltre ai residenti, tra gli stranieri vi si trovano categorie assai specifiche: i figli di  immigrati con meno di  18 anni; gli immigrati ciechi o disabili che semplicemente hanno ricevuto sussidi per la loro disabilità; gli anziani immigrati che risiedono negli Stati Uniti dal 1996; gli Hmong, ovvero coloro che provengono dalle regioni alte del Laos e che diedero aiuti all’esercito americano durante la guerra nel Vietnam; i rifugiati e coloro ai quali è stato riconosciuto il diritto di asilo; cubani ed haitiani ….

“Food stamp” ha la forma di “buoni” (“coupons”) che imitano il denaro corrente (marroni da un dollaro, blu da 5 dollari e verdi da 10 dollari), anche se in pezzatura che è circa la metà delle corrispondenti banconote. Ma a partire dalla fine degli anni ’90 alcuni Stati sostituirono tali fogli con una carta di debito denominata Electronic Benefit Transfer (EBT). Possono essere utilizzati per generi alimentari commestibili, senza riguardo al valore nutrizionale. Ciononostante, a fianco degli aiuti esiste una serie di strumenti di educazione alimentare. Non possono essere utilizzati per acquistare cibi caldi o cibi provenienti da ristoranti “fast food”.  Questa è l’immagine della presentazione del programma da parte del Dipartimento dell’Agricoltura.

 

[2] Giacché la linea arancione indica l’andamento della disoccupazione nella misura U6 – cioè inclusi i sottoccupati e coloro che non cercano lavoro perché non lo trovano – mentre quella blu indica l’andamento della partecipazione al programma degli aiuti alimentari.

Pesce in barile, versione Rick Santelli (13 luglio 2013)

luglio 13, 2013

 

 

July 13, 2013, 12:37 pm

Fish in a Barrel, Rick Santelli Edition

The tale of Monetary Hawks Down continues to get ever more interesting, although it makes one ever less sanguine about human nature.

The story so far: back in 2009-2010, as the Fed greatly expanded its balance sheet, there was a real debate over consequences — with each side making falsifiable predictions. One side said that the Fed’s moves would be hugely inflationary; the other said that expanding the monetary base in a depressed economy that was, furthermore, in a liquidity trap wouldn’t be inflationary at all. Years have now passed, and reality has closely tracked the liquidity-trap view. Argument settled,right?

Ha.

For the most part, the inflationistas have quietly dropped the whole inflation thing, never admitting that they made a wrong prediction, and gone on to demanding the same thing as before — but with a new rationale, financial stability. A few have supplemented this strategy by spouting what appears to be gibberish.

But some have moved even further, vehemently denying that they ever said anything about inflation, that it was always about something else. A prime case in point is CNBC’s Rick Santelli, who flatly declared, “I never said it was about inflation.”

Of course, Business Insider went back to the tape, and found Santelli back when not only declaring “of course I’m talking about inflation”, but going the full Weimar.

Still, he’s still doing it, insisting that it was never about inflation, that

The real argument was that these programs create a boatload of foreign exchange volatility.

So, how’s that going? Here’s the dollar index, also showing the beginning of the Fed’s quantitative easing strategy (I don’t count the emergency lending during the height of the crisis — QE1 — which wasn’t all that controversial):

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See how stable the dollar was before the Fed starting QE? See how much it has plunged since? Neither do I.

By the way, since someone will bring it up, that surge and decline in 2008-9 was the extreme period of the financial crisis, when everyone plowed into dollars out of fear, then pulled back as the crisis abated. The big story here is that the exchange rate has always been volatile, and that to the extent that there was a lot of dollar “debasement”, it took place during the Bush-Greenspan years when Fed policy was quite conventional.

I guess what gets me about all of this isn’t just the bad economics, it’s the stunning lack of menschlichkeit.

 

Pesce in barile, versione Rick Santelli

 

Il racconto sui Falchi Monetari In Panne continua ad essere sempre più interessante, sebbene mi renda sempre meno ottimista sul genere umano.

La storia sino a questo punto: nei passati 2009-2010, al momento in cui la Fed espanse notevolmente i suoi equilibri di bilancio, ci fu un dibattito reale sulle conseguenze – con entrambi gli schieramenti che avanzavano previsioni suscettibili di verifica. Una parte diceva che le iniziative della Fed sarebbero state grandemente inflazionistiche; l’altra diceva che l’espansione della base monetaria in una economia depressa che, per di più, era in una trappola di liquidità, non sarebbe stata affatto inflazionistica. Sono passati anni e la realtà ha seguito da vicino il punto di vista della trappola di liquidità. Problema risolto, dunque?

Per niente.

In larga maggioranza, gli inflazionisti hanno tranquillamente fatto cadere l’intera faccenda dell’inflazione, non ammettendo mai di aver formulato previsioni sbagliate, e sono tornati a chiedere le stesse cose – ma con un nuovo fondamento logico, la stabilità finanziaria. In pochi hanno integrato questa strategia blaterando cose che appaiono prive di senso.

Ma alcuni sono andati persino oltre, negando con energia di aver mai parlato di inflazione, e sostenendo che la questione era tutt’altra. Un esempio principale a proposito è stato quello di Rick Santelli della CNBC, che ha dichiarato senza alcuna incertezza: “Io non ho mai detto che ciò avesse a che fare con l’inflazione”.

Naturalmente, Business Insider è tornato alla registrazione, ed ha ritrovato che Santelli non solo dichiarava “naturalmente sto parlando di inflazione”, ma si riferiva addirittura a Weimar.

Eppure, egli continua a farlo, insistendo che la questione non riguardava l’inflazione, che:

“il vero argomento era che questi programmi creano un sacco di volatilità di valute straniere.”

Dunque, come sta andando? Ecco l’indice relativo al dollaro, che mostra anche l’inizio della strategia della “Facilitazione Quantitativa [1]” da parte della Fed (non considero i prestiti di emergenza durante il picco della crisi – la cosiddetta “Facilitazione Quantitativa” 1 – che non sono stati affatto oggetto di controversie):

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Vedete come il dollaro fosse stabile prima che la Fed partisse con la “Facilitazione Quantitativa”? Vedete come è crollato a partire da quel momento? Beh, non lo vedo neanch’io.

Per inciso, dal momento che qualcuno lo tirerà fuori, quella salita e quel declino nel 2008-9 fu nel periodo estremo della crisi finanziaria, quando tutti correvano ai dollari per paura, e poi si ritrassero quando la crisi fu contenuta. La storia vera in questo caso è che il dollaro è sempre stato volatile, e che nella misura in cui c’è stata una importante “svalutazione” del dollaro, essa ebbe luogo durante gli anni di Bush e di Greenspan [2], quando la politica della Fed era abbastanza convenzionale.

Penso che quello che posso dedurre da tutto ciò non riguardi soltanto una cattiva economia, si tratta di uno stupefacente difetto di umanità.


[1] Per “Quantitative Easing” vedi le note sulla traduzione.

[2] Precedente Presidente della Federal Reserve.

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